Teresa Ciabatti presenta il suo libro a Ravenna

RAVENNA. Penultimo appuntamento con la rassegna “Il tempo ritrovato”, oggi alle 18 alla Biblioteca Classense, Teresa Ciabatti, in dialogo con Matteo Cavezzali, presenta il suo romanzo Matrigna, edito da Solferino.

“Matrigna” è un libro che parla di rapporti di famiglia: da quale punto di vista?

«A me come scrittrice interessa molto raccontare la famiglia non come riparo ma anche come pericolo: è una specie di mia ossessione narrativa. E anche qui, ovviamente, il luogo migliore è insieme anche il luogo peggiore. Per me la famiglia è anche il primo luogo dove si sperimenta il potere, dove si sperimentano i rapporti di potere che poi ci formeranno come individui nel mondo e nella società».

Quindi la famiglia diventa un luogo di potere?

«Beh, dove lo sperimenti, nel senso che c’è qualcuno che detiene il potere. Già il bambino fa esperienza di questo: c’è qualcuno che ha più potere e qualcuno che ce ne ha meno, qualcuno che è subordinato. Questo anche rispetto alla verità, al sapere le cose: c’è qualcuno che sa di più e qualcuno che sa di meno».

È una visione legata più ad aspetti strategici che affettivi.

«No, c’è anche il sentimento, ma tutti i rapporti sono anche prove di forza: raramente si è in equilibrio, anche nei rapporti di coppia. Poi ci si completa, però mi interessa moltissimo analizzare gli equilibri».

Usa un termine molto forte, anche dal titolo, che è matrigna: un termine che abitualmente ha una accezione negativa. C’è una ragione?

«Nelle favole, per poter parlare del lato nero della maternità si doveva tirare in ballo la seconda moglie del padre, come se fosse un tabù raccontare il lato nero delle madri, della maternità, le ombre. Mentre penso che oggi si possa raccontare. Nel libro in realtà ci sono tantissime madri pur non essendolo, e tantissime matrigne, cioè madri cattive».

Si tratta di qualcosa di svincolato dalla maternità biologica?

«Si, io volevo riprendere quel termine per l’accezione negativa che ha, cioè “madre cattiva”, e ridarlo a chi spetta davvero, cioè alla madre. Perché si può raccontare che una madre è tutto, non può essere solo buona, anzi: una madre si forma negli errori, nelle mancanze. Forse la maternità è il campo più facile dove poter sbagliare».

In questo sguardo sulla famiglia quanto serve un aspetto autobiografico e quanto serve invece uno sguardo magari più distaccato, più lucido?

«Qui io volevo che ci fosse assolutamente una voce narrante che, in confronto al romanzo precedente – che era presentato come autobiografia, poi in realtà era un misto di realtà e di finzione – è molto diversa dalla protagonista del romanzo precedente. Quella era invadente e sempre in primo piano, qui Noemi è sempre sullo sfondo e vuole sparire, non vuole esserci. In qualche modo credo che le due protagoniste mi corrispondano, proprio perché non siamo fatti di un unico aspetto. Tanto mi corrispondeva la mitomane che si metteva sempre in prima fila quanto mi corrisponde questa che vuole sparire. In fin dei conti, poi, il ruolo dello scrittore è questo. Io nella mia vita ho vissuto pochissimo, quasi niente, da protagonista. Anche al liceo, ero quella in un angolo che guardava, che assisteva, una specie di testimone: testimone delle storie d’amore altrui, delle avventure degli altri. Non sono mai stata al centro di niente. Però questa in realtà è una posizione di privilegio perché ti abitua a uno sguardo che poi può diventare un mestiere. Perché lo scrittore fa esattamente questo. E in realtà, anche quando uno si racconta in realtà è un testimone».

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