Ma si può fare cinema riciclando?

Rimini

 

RIMINI. Da un po’ di tempo a questa parte il riuso e il riciclo stanno prendendo sempre più spazio in ogni ambito, dall'ecologia alla moda, dall'arredamento alle arti visive e a quanto pare anche il cinema non è da meno.

Il riminese Marco Bertozzi, docente di Cinema documentario e sperimentale all’Università Iuav di Venezia e regista, illustra come la settima arte riviva in questo modo nel suo nuovo libro Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, edito da Marsilio. Agli inizi del mese l’opera di Bertozzi è stata presentata al Centre Pompidou di Parigi, poi se ne è parlato alla Cineteca nazionale di Roma.

Il concetto cardine del testo è il “found footage”, ovvero «il riuso delle immagini d’archivio, che cerca di costruire nuovi significati partendo da film amatoriali, vecchi documentari, eccetera – spiega l’autore –. Tutta la storia del cinema appare come un immenso parco archeologico in cui si trovano sorprendenti scoperte. In questo caso le immagini vengono guardate con occhi altri perché, se nel cinema archeologico tradizionale, venivano privilegiati l’aspetto letterario e la voce narrante, qui le immagini non fanno da semplice supporto ma acquisiscono maggiore importanza insieme al relativo processo di rielaborazione in cui si possono anche rallentare, ingrandire, ricolorare. In questo modo ci si avvicina alla sfera della video arte e, per esempio, tre anni fa ha vinto la Biennale arte di Venezia il film “The clock” di Christian Marclay che per la durata di ventiquattro ore effettive mostrava immagini di orologi e sveglie».

Tra i suoi riferimenti ci sono Jean-Luc Godard e Guy Debord. Sono stati i precursori di questa tecnica?

«Godard anni fa ha intrapreso la più vasta impresa di riutilizzo di immagini, “Histoire(s) du cinéma”, in cui ha riscritto la storia del cinema del Novecento. Debord invece nel film “La società dello spettacolo” ha utilizzato vario materiale tra cui quello pubblicitario ribaltandone il senso e realizzando una vera e propria critica del capitalismo».

Da questi grandi nomi si arriva oggi a comuni amatori che possono cimentarsi nel riuso di immagini...

«Certo, inoltre la grande bellezza di questo tipo di cinema consiste nella possibilità di fare un film senza girare alcuna immagine. Con l’arrivo del digitale sono nate molte piattaforme in cui è possibile lavorare in questo modo e numerose cineteche hanno messo a disposizione il materiale online. Ci sono ancora vincoli a livello di diritti d’autore, per cui se si utilizzano immagini di altri bisogna chiedere il permesso e talvolta pagare, ma qualcosa per migliorare questo aspetto sta accadendo».

Oltre a essere docente universitario (in un percorso che dall’architettura l’ha portata al cinema), lei è regista e ha realizzato vari lavori, utilizzando anche il found footage. Com’è nata questa passione?

«L’idea del found footage è nata in me dopo aver svolto il servizio civile nella Cineteca comunale di Rimini. Lì ho avuto modo di ammirare opere di Fellini, immagini del Partito comunista, filmati di famiglia o promozionali e ogni giorno ne uscivo immerso da una nuvola incontrollabile ed evocativa. Alla mia città, cui sono molto affezionato, si riferisce il film “Rimini Lampedusa Italia”, mentre con la tecnica del riuso sono nati i miei “Appunti romani” del 2004 (con cui ho partecipato al Festival di Locarno) e in parte “Predappio in luce” e “Profughi a Cinecittà”, rispettivamente del 2008 e 2012. Le immagini montate non sono neutre, ma cambiano significato a seconda della posizione che assumono».

Dopo la tappa nella capitale, Bertozzi è passato anche sul piccolo schermo, su Raitre, con le repliche della trasmissione da lui condotta “Corto reale. Gli anni del documentario italiano”: un focus sulle produzioni degli anni Cinquanta e Sessanta.

 

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