"La fedeltà è una lotta politicamente sentimentale"

Rimini

RIMINI. «Quello che spero è che questo libro aiuti i lettori a porsi delle domande: quanto siamo fedeli a noi stessi e quanto la condizione che abbiamo trovato ci fa stare sereni?».

Lo scrittore riminese Marco Missiroli (1981) presenterà domenica a Rimini, in anteprima nazionale, il suo nuovo romanzo Fedeltà (Einaudi) uscito ieri.

Missiroli, che cosa rappresenta “Fedeltà”?

«Mi sono accorto che sarebbe stato il libro che conteneva tutti gli altri miei libri, perché a un certo punto uno scrittore si reinventa, si ricrea e poi finalmente incontra il romanzo che fonde tutte le strade prese precedentemente e le mette insieme facendole diventare una strada compiuta. Sono quelli che chiamano i romanzi della maturità, mantengono dei temi e li espandono, ma sono anche quei romanzi che non vedi l’ora di scrivere per misurarti con la totalità della tua narrazione come non hai mai avuto il coraggio di fare prima. Anche la tecnica di scrittura è molto più complessa rispetto ai miei lavori precedenti. In Fedeltà il narratore sta su un personaggio, quando il personaggio incontra o ha un contatto (anche semplicemente emotivo) con un altro personaggio, il narratore passa a quest’ultimo; è come se ci fosse un testimone che passa da una parte all’altra. Non volevo che questo risultasse un artificio narrativo, ma che fosse naturale e fluido quindi ci ho impiegato 4 anni per scriverlo».

Qual è l’idea di fondo di “Fedeltà”? Che cosa ci vuole dire?

«Alla base di Fedeltà ci sono degli interrogativi che mi sono sempre posto: se siamo fedeli agli altri, quanto rischiamo di non essere fedeli a noi stessi? E se siamo fedeli a noi stessi, quanto non riusciamo a essere fedeli agli altri? È una lotta interiore e quotidiana, che si potrebbe definire “politicamente sentimentale”. Dobbiamo rispettare le norme e le regole sociali, dobbiamo e vogliamo rispettare un patto amoroso e la persona con cui stiamo, ma che cosa ci perdiamo? E perché non possiamo provare a crescere anche vivendo esperienze con altre persone o con noi stessi? L’ambito d’indagine dunque non è solo quello sentimentale ma comprende anche le scelte e le azioni quotidiane, etiche, professionali. Credo che questo libro sia dedicato a tutti coloro che sono fedeli, con un alto grado di fatica per mantenere la fedeltà, e a tutti quelli che sono invece infedeli e che provano dolore per questa infedeltà. Tra questi due poli estremi si sviluppa il racconto della relazione di una coppia in due periodi temporali diversi, nel 2009 e nel 2018 (la coppia prima ha 35 anni, poi 44 anni). Attraverso le loro vicende si entra in contatto con altre figure che ruotano attorno: un amico di lei, una studentessa di lui che è professore, ma anche la madre di lei. Questo consente di osservare i pensieri di diverse stagioni della vita, dalla giovinezza fino alla vecchiaia, che si interrogano sullo stesso tema».

Quando si è accorto che sarebbe potuto diventare uno scrittore?

«È stato solamente dopo un po’ di tempo; ho scritto il mio primo libro con grande incoscienza, avevo solo 23 anni, e non sapevo assolutamente se sarebbe stato pubblicato, se l’avrei finito, a chi sarebbe stato destinato. Forse è stato proprio questo il mio punto di forza: scrivere senza avere un fine. Della possibilità di farne un mestiere si prende coscienza man mano che si scrivono libri e che si finiscono – come diceva Daniel Pennac “ogni volta che inizi un libro impari a scriverlo” – ed è vero, ho capito che uno scrittore è uno scrittore perché fallisce, perché imbocca vicoli ciechi e va incontro con coraggio al destino incerto di quello che sta scrivendo».

Come si è avvicinato al mondo della letteratura?

«Credo di aver cominciato a leggere quando ho iniziato a fare i conti con il mondo che avevo dentro, la lettura è il modo più interessante, intimo e immediato per ampliare il proprio mondo. La lettura ti salva la vita. Ti permette di conoscere anche se non hai possibilità di muoverti, o se sei troppo giovane per poterlo fare, la lettura ti consente di poter vivere tante vite, anche quando cresci e invecchi, per cui man mano che si va avanti si acquisiscono vite, come una matrioska, e ti arricchisci, questa è una banale verità che ho capito tardi. Sono un lettore tardivo, ho iniziato a leggere ciò che mi piaceva intorno ai 21 anni, quindi rimango sempre con una fame atavica, come se dovessi recuperare il tempo perduto nell’adolescenza – la meraviglia ambulante che è Rimini mi ha un po’ distratto – per cui ora leggo voracemente qualsiasi cosa. Soprattutto leggo tanti francesi e americani che sono la mia base, quindi Hemingway e Fitzgerald che sono i miei pilastri, a cui si aggiungono Cormac McCarthy, Philip Roth per gli americani; Emmanuel Carrère e Michel Houellebecq per i francesi e Julian Barnes tra gli inglesi. Leggo moltissimo anche autori italiani, da Mario Soldati a Dino Buzzati, ma anche i classici come Pavese che mi aiutano a colmare la solitudine letteraria degli anni perduti. Quello però che mi ha insegnato più di tutti è Bernard Malamud, uno scrittore del secolo scorso, uno statunitense di origine ebraiche, che mi ha fatto capire quanto la timidezza della prosa sia fondamentale e deflagri molto di più che “urlare” o creare continuamente scene-madri. Attraverso le sue scene-figlie è riuscito a farmi capire quanto la letteratura sia fondamentalmente un processo di sussurrio, di minuzie quotidiane che poi diventano, grazie alla reinterpretazione letteraria, qualcosa di grande e di meraviglioso, trasformando la realtà di ogni giorno in qualcosa di straordinario».

Saprebbe dare un consiglio ai giovani che vogliono approcciarsi alla scrittura?

«Direi due cose fondamentali: non pensare alla pubblicazione ma solamente alla scrittura e all’avventura che si prospetta, e non raccontare a tutti che si sta scrivendo, farlo il più possibile in segreto. I segreti proteggono le imprese: questa forse è una delle cose più importanti che ho capito da quando ho iniziato a scrivere. Per lungo tempo, per ogni mio libro, nessuno sa che lo sto scrivendo, e questo protegge i miei tentativi».

Che ruolo ha avuto per la sua carriera crescere in provincia?

«La vita di provincia la capisci davvero solo quando vai a vivere fuori, magari in una grande città, e poi rientri. È una vita che ha dei limiti grandi ma allo stesso tempo è ricca di piccoli rituali quotidiani che ti proteggono. Ora vivo a Milano ma apprezzo molto tornare a Rimini: quando arrivo all’Ina Casa, dove abita la mia famiglia e dove ho ambientato Fedeltà, mi piace passeggiare per Largo Bordoni e osservare la vita che scorre. La ferramenta, gli altri piccoli commercianti, le persone che stendono i panni, le braci per le grigliate, gli spazi comuni e di condivisione sono qualcosa di davvero importante che apprezzo tanto».

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