"Ottocento", aperta a Forlì la grande esposizione ai Musei San Domenico

Forlì

FORLI'. Una specie di album di famiglia, di quelli lussuosi e rilegati in pelle e velluto che si riempivano quando le foto avevano ancora uno spessore. Quelli che se li sfogli, magari di rado, ritrovi i momenti topici, con tutti i parenti in posa, gli atti eroici, le occasioni felici, le maternità e i paesaggi, il lavoro, le battaglie e gli sdilinquimenti. I ritratti e gli scatti rubati, quelli in cui tutta la famiglia si riconosce, quelli che «ma dai, non lo ricordavo», o anche «questa non l’avevo mai vista».

La nuova grande mostra forlivese dei Musei San Domenico Ottocento. L’arte dell’Italia tra Hayez e Segantini (fino al 16 giugno) è aulica e popolare insieme, a tratti pomposa ma commovente. Centocinquanta opere, per 94 artisti, documentano quel sessantennio di Ottocento dall’unificazione alla Prima guerra mondiale di cui, per dirla con il presidente del comitato scientifico Antonio Paolucci, alcune immagini sono state incamerate dagli italiani fin da quando le hanno viste la prima volta sulle pagine dei loro sussidiari alle elementari, diventando poi memoria collettiva di un popolo. «Mostre monster, quelle di Forlì – spara Vittorio Sgarbi comparso alla vernice di ieri tra la folla –, mostre sontuose, sempre ricche di prestiti importantissimi, che insomma vanno sul sicuro» e probabilmente sarà così, anche questa avrà gran successo.

Hayez per aprire

L’inizio del percorso è occupato dall’“ultimo romantico” Francesco Hayez, il “genio democratico” così definito da Giuseppe Mazzini, che aveva creato con la sua pittura un nuovo classicismo attingendo a storia e miti non più greci e romani, delineando il nuovo immaginario epico e drammatico di una nazione nascente. Dall’eroina biblica Ruth, all’Ecce homo, fino al ritratto del divo contemporaneo Gioachino Rossini col panciotto stretto e sbottonato, alle scene drammatiche e collettive, come La sete dei Crociati sotto Gerusalemme, che sintetizzano le sofferenze dei popoli e l’ineluttabile durezza della storia. A lui la critica attribuisce il ruolo del caposcuola che riporta la pittura ottocentesca italiana in un contesto artistico europeo. È sempre lui a dettare le regole anche per la ritrattistica dei “padri della Patria”, che qui abbondano. A partire dal ritratto iconico dell’unificatore Camillo Benso che apre una galleria di volti ritratti da mani diverse come il sorprendente Garibaldi di Vittorio Matteo Corcos, che ritrae anche un modernissimo Pietro Mascagni a cavalcioni di uno sgabello, al più noto Mazzini morente del nostrano Silvestro Lega.

L’epopea dipinta

È dallo scalone dei musei che entra però nel vivo il racconto epico di un popolo di fatto ancora inesistente. I linguaggi si diversificano, le dimensioni pure, è comune il realismo potente che le opere esprimono. Qui si aprono le sale delle tele immense di storia patria, a cominciare dalla Breccia di Porta Pia di Michele Cammarano, passando per le “cronache” dipinte in grande formato da Gerolamo Induno (La battaglia di Magenta, La morte di Enrico Cairoli a Villa Glori e altre), passando per capolavori assoluti di drammaticità come Lo staffato di Giovanni Fattori, col destriero spaventato in fuga e il soldato disarcionato e ormai morto, trascinato via inutilmente dal campo di battaglia macchiato del suo stesso sangue.

L’eroismo da un lato e la prostrazione dei vinti sull’altra faccia della medaglia. Cattura a lungo lo sguardo L’alzaia di Telemaco Signorini, che unisce nella stessa tela orizzontalissima la fatica delle schiene piegate dei lavoranti del porto e la passeggiata spensierata dei signori sullo sfondo, sintesi perfetta dell’epoca. Patini, Ferroni, Mancini (lo sguardo della Caldarrostaia vi seguirà per un lungo tragitto), Angiolo Tommasi e la sua folla spaurita di Emigranti sul molo, aprono la via alle pagine agresti, popolari e commoventi di Giovanni Segantini con le sue greggi, i suoi pascoli e i temporali, intercalati ad altri paesaggi agrari e umani fra cui spiccano Il pascolo e il Mattino a Pietramala ancora di Telemaco Signorini.

L’evoluzione di una società

Ma la società rappresentata ha tutto sommato la giovinezza di uno Stato giovane ed è in evoluzione, e l’arte con essa che si articola in molti linguaggi diversi, avanguardisti, mai univoci (macchiaioli, simbolisti, divisionisti). Nelle tele entra una borghesia che emerge, viaggia, siede a tavola, a teatro e al caffè (la ritraggono De Nittis e Zandomenighi), legge, fa bagni al mare e in villeggiatura (ancora una volta colpisce il livornese Corcos con In lettura sul mare). La scienza progredisce e i nuovi Laocoonti in marmo sono medici pro vax, e succede che nemmeno di questi tempi non passi affatto inosservato quell’Edoardo Jenner prova sul figlio l’inoculazione del vaccino del vaiolo scolpito nel 1878 da Giulio Monteverde.

La chiusa è ad effetto con Le due madri di Giovanni Segantini di fronte al capolavoro sull’ineluttabilità, di dantesca ispirazione, di Giuseppe Pellizza da Volpedo Lo specchio della vita.

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