Una riminese in “ballo” con Attila alla conquista del Teatro alla Scala

Rimini

Claudia Rocchi

Per gli italiani è la prima dell’anno; per la riminese Sara Barbieri è la seconda “prima”. Si tratta di Attila di Giuseppe Verdi; questa sera alle 18 inaugura la stagione del Teatro alla Scala di Milano. Tutti potranno seguire l’allestimento del regista Davide Livermore, grazie alla diretta mondiale diffusa su Rai1, Radio3, Rai Cultura e anche in alcuni cinema.

Fra i protagonisti dell’attesa prima, sul palco c’è anche Sara Barbieri, nata a Rimini nel 1981 ma da quindici anni milanese di adozione. Dopo gli studi in danza alla scuola Arabesque della sua città, e una variegata formazione anche nel contemporaneo, nel 2010 arriva a Milano scelta dal coreografo Francesco Ventriglia e li si ferma. Da anni lavora nelle opere liriche con il gruppo di ballo della Scala. Ha pure trovato l’amore di un ballerino, ora fisioterapista.

Dopo la prima scaligera in Giovanna d’Arco nel 2015, stasera la ballerina fa il bis sullo stesso palcoscenico, ancora in un Verdi giovanile, parte di un gruppo di 25 danzattori che avrà molto spazio in questo progetto registico.

Sotto il palco, in buca d’orchestra, a eseguire la partitura di Verdi diretta dalla bacchetta di Riccardo Chailly, ci sarà anche il romagnolo Thomas Cavuoto, viola di Cesenatico. «Sono tranquillo – dice Thomas – è la 15ª prima che affronto, lo spettacolo mi sembra molto bello, con voci molto importanti».

Sara, come sta vivendo questa trepidante vigilia?

«Me la sto godendo tutta – risponde la danzatrice –, sento di avere la tranquillità sufficiente per non farmi stressare troppo dalle pressioni che, specialmente per questa “prima”, sono tante. Cerco di godermi il piacere di questo lavoro che mi sta dando enorme soddisfazione».

La sua voce evidenzia l’appagamento; è il re degli Unni a darle tanta carica?

«Più che ad Attila (lo avevo affrontato anche nel 2011, con la regia di Lavia), il merito va tutto al nostro regista Livermore; è la seconda volta che lavoro con lui dopo il Tamerlano del 2017, ed è bellissimo».

Cosa le piace della sua visione?

«Livermore è anche ex cantante lirico, ed è bravissimo perché ha rispetto della partitura come solo un musicista può avere. C’è differenza rispetto a molti altri registi tesi solo ad applicare una lettura teatrale. Nel nostro Attila tutto ciò che succede è simile a una lettura della musica attraverso le immagini. Per noi che siamo danzatori è molto più interessante avere una regia anche musicale».

In che modo lei e il corpo di ballo partecipate all’azione?

«Innanzitutto il regista ha scelto un gruppo misto di attori e danzatori che definisce “artisti del movimento” e che gestisce direttamente, senza coreografo. Siamo molto responsabilizzati; attraverso l’improvvisazione e l’uso dei nostri corpi siamo condotti a costruire la struttura dello spettacolo e l’idea registica, per cui il nostro ruolo diventa l’ossatura sulla quale solisti e coro possono inserirsi. Ogni idea di Livermore è profonda, perciò a livello artistico è una bella esperienza».

Quali ruoli interpreta?

«L’ambientazione del V secolo del libretto viene traslata in epoca novecentesca, il tema dell’invasione è interpretato con allusioni al tempo fra le due guerre e al nazismo. Nella prima parte rappresentiamo un gruppo di sfollati, siamo un popolo in cerca di identità. Nella seconda, Livermore si è ispirato al film di Visconti La caduta degli dei; qui ricrea una sorta di banchetto orgiastico che in realtà è gelido, d’atmosfera decadentista, in cui ci chiede di essere spenti, privi di vita. Per aiutarci ci ha pure fatto vedere le immagini del “matrimonio” del film. Il mio ruolo ricorda una donna militare in abito maschile ispirata al Portiere di notte di Liliana Cavani».

Come reagirà il pubblico?

«Bella domanda, sicuramente c’è tanto di buono e di spettacolare anche per il pubblico. Livermore sa descrivere anche le cose più terribili con grande armonia di fondo. Poi alle critiche siamo abituati, abbiamo le spalle larghe. Il valore dei solisti è assoluto, anche a livello umano. È un altro segno dell’evoluzione compiuta dalla Scala in questi anni. Questo è il mio 9° anno, ho fatto una quindicina di produzioni, circa 150 spettacoli, non è poco. Alla Scala mi sento proprio a casa».

E come si sente a Milano?

«È una città che amo, cambiata in meglio in questi anni. Investire anche in settori culturali ha dato tanto. È migliorata nei servizi, è sempre in espansione, c’è uno spirito vivo che nutre anche l’essere artista, non soltanto il lavoro. Al di là del teatro poi, ho utilizzato la mia “fissa” per l’allenamento in altri settori; insegno Pilates, Gyrotonic, danza contemporanea, e tengo corsi di formazione per insegnanti di danza classica».

Nella sua Rimini intanto ha riaperto il teatro Galli; ci sta facendo un pensierino?

«Sarebbe meraviglioso debuttare al Galli; sarebbe bellissimo per me danzare qualcosa legato a questo centro, magari con un coreografo del luogo. Spero che anche a Rimini si riesca a creare una realtà che offra alla città quello che si merita».

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