Flavio Bertelli, dalla sua Bologna in riviera tra malattie e grande povertà

Rimini

Flavio Bertelli (San Lazzaro di Savena 1865 – Rimini 1941) arriva alla Cagnona di Bellaria nel 1933 con la sorella Amalia. Qui, ammalato, trascorrerà i suoi ultimi anni di vita, «segnati da una povertà terribile» come racconta Paolo Stivani, che con Franco Solmi cura il catalogo, edito da Tamari, della retrospettiva dedicata all’artista dalla Galleria “Il 2 di Quadri” di Bologna alla fine del 1981.
Terzogenito di nove figli
Bertelli muore all’Ospedale Civile di Rimini per le complicazioni di una neoplasia gastrica. Terzogenito dei nove figli di Luigi, importante pittore dell’Ottocento, dopo gli studi liceali a Bologna e Firenze, dove frequenta lo studio di Telemaco Signorini, nel 1883 si iscrive all’Accademia di belle arti di Bologna abbandonandola dopo un anno nonostante gli ottimi risultati ottenuti. Nel 1891 è a Milano per partecipare alla prima Triennale di Brera. Qui incontra Vittore Grubicy de Dragon che lo converte al divisionismo. Cominciano in questo periodo i guai finanziari per il padre e la famiglia a causa del fallimento dell’antica fornace di mattoni della quale sono proprietari.
Le cattive condizioni economiche unite alla grave sindrome depressiva che lo affligge, costringono Flavio a traferirsi in una soffitta di Palazzo Bentivoglio, dove hanno il loro studio altri giovani pittori bolognesi. Si tratta di artisti goliardici e burloni, membri dell’Accademia della Lira, contrapposta a quella ufficiale, che diventeranno i protagonisti de I Giambardi della Sega descritti dall’illustratore Alfredo “Barfredo” Baruffi nella sua autobiografia. Espone di nuovo alla seconda Triennale di Brera, alla Società Francesco Francia e nel 1898, all’Esposizione Nazionale di Torino.
Nel 1900 si trasferisce nel nuovo studio in via del Poggiale, collabora con la rivista umoristica “Italia ride” assieme a Baruffi, Augusto “Nasica” Majani, Marcello Dudovich, Giuseppe Romagnoli, Giulio Ricci e tanti altri artisti di fama nazionale. Nel 1905 decora la pieve di Sant’Ansano al Pino chiamato dall’amico don Eugenio Codecà. “Oltre il Pincio”, l’opera divisionista più significativa della sua produzione, la dipinge nel 1915, una delle ultime perché abbandona presto questa tecnica per riprendere la pittura post macchiaiola praticata in gioventù.
Fra Romagna e Marche
Negli anni Venti si muove fra Romagna e Marche in diverse località: Modigliana, Cattolica, Gabicce, Pennabilli. Nel Montefeltro vive una intensa love story cessata bruscamente con ripercussioni psicologiche così gravi da costringerlo nel 1929 al ricovero in casa di cura. Non potendo pagare la degenza in clinica, esce, chiude lo studio bolognese e si rifugia dall’amico pittore Antonio Santini a Crespellano. Tre anni dopo arriverà nella modesta casa di Bellaria dove dipinge con poetica armonia di colori, luminosi paesaggi campestri, marine, figure e nature morte su piccole tavole di compensato con un modesto mercato.
Una vita tragica la sua, fatta di miseria e malattie, che lo accomuna al padre Luigi, anche lui vissuto in condizioni di estrema povertà così come accomuna entrambi la rivalutazione troppo tardiva della loro arte.

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