«Tranquilli, l’italiano è in buona salute»

FORLì. Alla Settimana del buon vivere di Forlì ha parlato di «parole liquide» e di comunicazione nell’era del digitale: Vera Gheno, sociolinguista e Twitter manager dell’Accademia della Crusca, nata in Ungheria nel 1975, guarda alla lingua italiana senza allarmismi o nostalgie.

Lo si nota tra l’altro dai suoi libri come Guida pratica all'italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (Cesati, 2016), Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network (Cesati, 2017) e Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, manuale per vivere felici e connessi, scritto con il giornalista e filosofo Bruno Mastroianni, uscito per Longanesi a fine agosto.

«Tecnicamente non possiamo dire che l’italiano stia peggio di una volta – dice Gheno –, anche se esiste il mito per cui dall’unità furono fatti grandi sforzi perché diventassimo italofoni mentre a partire dagli anni Sessanta tutto è andato in rovina… Questa è una lettura “facile”, come è facile e prevedibile che gli adulti parlino male delle generazioni dei giovani. In realtà finché non esistevano i social, non erano molti i contesti in cui era possibile accostarsi all’italiano non formale: forse le liste della spesa, le scritte sui muri o nei bagni, i diari… Ora però quello che era racchiuso in quei contesti si è riversato online, e provoca la nostra percezione che lo stato dell’italiano sia peggiorato. Inoltre, la nostra conoscenza delle parole è legata all’uso che ne facciamo: e oggi, per motivi tangenziali all’uso in sé della lingua, non abbiamo più tempo e modo di concentrarci su testi che non siano brevi, frammentari, sincopati… il che rispecchia poi la realtà in cui viviamo e il modo in cui ci poniamo di fronte a essa. Tutto questo fa sì che leggiamo di meno, e che i ragazzi in particolare sostituiscano spesso il libro con altri media».

Quindi tutto sommato l’italiano è sano e vitale.

«Io almeno sono tranquilla sulla sua salute. Semmai bisognerebbe sforzarsi di creare occasioni di lettura appetibili, che non siano limitate al libro classico ma prevedano supporti diversi».

La scuola cerca di spingere i giovani alla lettura, e di farli “innamorare” di questa attività.

«Non ho mai creduto alle costrizioni: le nostre generazioni le hanno vissute con i libri che venivano forzati a leggere come quei Promessi sposi che finiscono per essere odiati da tutti gli studenti! Poi è anche vero che il 52 per cento degli italiani non legge neppure un libro all’anno, e in un decimo delle nostre case non esistono libri. Questo vuole dire però che la scarsa propensione alla lettura è da ascrivere al passato, non al presente… Se poi penso al test d’ingresso della laurea triennale in Comunicazione, dove insegno, e al fatto che la maggioranza dei candidati pensa che “reazione” e “rivoluzione” siano sinonimi, mi scoraggio un po’, ma il problema del lessico è legato alla velocità con cui ci sembra di dover passare da una informazione all’altra perdendo di vista il significato, specialmente se pensiamo che quel significato ci sia già noto».

La nostra inoltre è una lingua sempre più meticcia.

«Io sono un po’ demauriana in questo: e Tullio De Mauro sottolineava che sui nostri 224mila termini solo 6mila in realtà sono parole straniere. Ma l’italiano in realtà è una lingua-crocevia per la posizione del nostro Paese nel Mediterraneo. Abbiamo un nucleo forte di termini aborigeni, derivanti dal latino, e poi mille anni di parole entrate dall’arabo, dal longobardo, dallo slavo… : una situazione “sana” per una lingua perché significa che le persone, in una situazione di limiti e frontiere, cercavano parole-ponte per comunicare. Oggi però percepiamo lo strapotere dell’inglese: il cui uso deriva dalla Rete ma anche, a volte, dalla volontà di fare i fighi utilizzando non un forestierismo di necessità, come “uragano”, ma di lusso. È vero che l’inglese è più sintetico e diretto, ma io invito sempre alla riflessione personale sul suo uso, un consiglio che dà anche il presidente della Crusca Francesco Sabatini».

Lei anche nell’intervento forlivese ha parlato della radicalizzazione della comunicazione nei social.

«È un effetto della distanza che si instaura se non vediamo in faccia una persona, e ancora più si verifica se ci riferiamo a qualcuno che incarna un’idea altra da noi: insomma, il nemico senza volto fa scaturire la violenza che è insita in noi e i social in questo sono un terreno privilegiato».

Altro problema della lingua italiana: i femminili…

«È un problema perché siamo stanziali e ci disturba il cambiamento: finché non c’erano donne in certi contesti i femminili non erano previsti, ma quando è insorta la necessità di dare un nome a nuovi ruoli parlando di una “ministra” o di una “ingegnera”, questi termini sono stati sentiti alieni. Perché succede? Perché alcune parti della popolazione pensano che ci sia una politicizzazione di queste neo creazioni, mentre qualche decina di anni fa non ci fu nessuna levata di scudi, nessuna campagna quasi di odio al conio del termine “senatrice” accanto a quello di “senatore”. Ma la lingua ha sempre ragione, e i suoi processi li compie indipendentemente dai nostri pregiudizi: e intanto lo Zingarelli quei termini già li ha fatti propri da tempo…».

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