Pupi Avati: "Bisogna saper mentire a se stessi, promettersi sempre un grande futuro"

Forlì

Cinquant'anni di carriera e cinquanta film. Pupi Avati, che di anni oggi ne ha 80, ha raccontato attraverso un’intera vita artistica l’Emilia Romagna come pochi hanno saputo fare, bloccando nell’immaginario collettivo personaggi e luoghi che incarnano ricordi, paure, ossessioni, sentimenti e che costituiscono un pezzo di identità stessa della gente di questa regione. Nei giorni scorsi ha finito le riprese a Comacchio del suo ultimo film in ordine di tempo, “Il signor Diavolo”, e a proposito di luoghi, quello sulle rive del Po è di fatto un ritorno. Pupi Avati a Forlì il 23 settembre parlerà di “Tutti i luoghi del mio buon vivere” alle 21 nella Chiesa di San Giacomo.

Cominciamo dall’ultimo suo luogo: il Delta del Po. Ha appena finito di girare un film che racconta la storia nera di un feroce delitto nelle zone dove poco più di 40 anni fa aveva girato il suo horror più famoso “La casa dalle finestre che ridono”. Cosa la attrae di questo luogo?

«Sono tornato più volte nel Delta e sempre per i miei racconti più fantastici e gotici. Qui è sempre tutto uguale, il progresso ha contaminato meno l’ambiente e ha lasciato la natura, più ostile, così com’era anche nelle favole terrorizzanti che ci raccontavano da bambini in campagna. Il Delta consente di allontanarsi dal presente, e per me rappresenta sempre quell’ altrove della mia infanzia. In tutto il resto dell’Emilia da Bologna verso nord oggi trovo solo capannoni, industria, modernità onnipresente. Perciò certe storie di paura ambientate qui riacquistano credibilità. Sarà una sciocchezza, ma non credo sia un caso che Igor il russo sia scappato proprio da quelle parti».

Beh una gran storia anche quella.

«Sì una storia davvero gotica, qua capitano davvero».

Nei suoi 50 anni di carriera cinematografica e 50 film, lei ha rendicontato la storia della nostra gente e delle nostre terre. La sua Bologna, a differenza del Delta, è certamente cambiata. Come la racconterebbe oggi?

«Rendicontare è una parola che mi piace, è quello che ho fatto, ho raccontato quello che so e conosco. Non posso paragonare la Bologna dei miei vent’anni a quella di oggi, sarebbe ingiusto. Oggi a Bologna non trovo più i miei amici, i luoghi dell’anima, le ragazze magnifiche di cui ci innamoravamo, le notti e i nottambuli, i biasanot come li chiamavamo, i bar, il jazz di allora. Manca l’ossigeno che era il propellente della mia giovinezza. Oggi Bologna mi piace meno, mi sento un intruso, non sento più inflessioni dialettali. Ma soprattutto non ci sono io ragazzo, è quella la persona che mi manca di più».

La propria giovinezza è il “luogo” preferito di tutti.

«Soprattutto per chi non ha avuto il coraggio di diventare adulto e ha fatto di tutto per non crescere, come me, e si illude ancora che tutto possa succedere. In generale bisogna saper mentire a se stessi e io l’ho fatto, altrimenti poi non avrei potuto mai fare la professione rischiosa che ho scelto: il cinema, non è per niente facile fare il narratore di storie, è tutto un po’ un azzardo. Io comunque questo lo chiamo il mio lavoro, ma quando la mattina mi sveglio e dico a mia moglie “vado a lavorare”, lei ha sempre riso, anche oggi...»

Quali luoghi non ha visto e vorrebbe vedere e quali storie che non ha raccontato vorrebbe raccontare oggi?

«Quando si diventa vecchi, ecco volevo evitare questa parola ma non si può, ci si accorge che quello che non hai visto e non hai fatto è molto di più di quello che hai visto e fatto. Allora ti assale una voracità di fare e di non sprecare neanche un po’ del tempo che ti rimane che non sai quant’è, e non lo voglio sapere, ma so che è breve. Da ragazzo non ti rendi conto, oggi so tutto quello che non ho fatto, non ho visto, le persone che non ho incontrato, i libri che non ho letto, e so anche che quel piccolo talento che ho avuto non l’ho messo a frutto come avrei dovuto. Sono un eterno insoddisfatto eppure questo è il mio carburante. Mentre parlo con lei sono in moviola e sto montando il nuovo film, aspetto ancora di fare il film della vita, quello che non ho saputo ancora fare».

Questo se lo dice da solo...

«Me lo dico da solo e so che è vero. Conosco persone completamente appagate che si riconoscono del tutto in quello che hanno fatto, io no. Io so di non aver raccontato “la storia”, anche se non è detto che non lo faccia. Come ho scritto nella mia autobiografia, le persone che vogliono vivere un’avventura umana di un certo livello devono promettersi un grande futuro, pensare che prima o poi verranno risarciti, dirsi che le cose sono possibili, anche le più strane, bisogna mentirsi».

Con lei ha funzionato?

«Io facevo il venditore di pesce surgelato, ero sposato e avevo due figli. Tutto remava contro una carriera come regista cinematografico... ma di film ne ho fatti 50, sono un bel po’. Con Lucio Dalla, quando ci conoscemmo, per via della musica, ci trovavamo in un’osteria sotto le Due Torri a mangiare tonno cipolla e fagioli e gli prestavo io quelle cinquanta lire che lui non aveva mai, e raccontava gesta mirabolanti che avrebbe compiuto, parlava di sé in maniera esagerata, poi con la sua vita ha compiuto un viaggio siderale, ha fatto molto di più di quello che raccontava. Le cose sono possibili, a volte è più difficile crederci».

Consiglierebbe questo a chi oggi ha vent’anni?

«Ai giovani consiglio di cercare il proprio talento, il proprio tono di voce per dire chi si è. Ognuno ha cose da dire di sé perché ciascuno è unico e irripetibile. Però sono pochissimi quelli che cercano il proprio talento, più spesso lo confondono con la propria passione. Questo errore io l’ho commesso, volevo fare il musicista jazz e credevo che bastasse grande caparbietà e dedizione, ma non è così. Serve capire qual è il proprio talento grazie al quale riuscire a dire agli altri chi sei. Prima di andarsene bisogna dire agli altri chi si è».

E questa volta senza mentire?

«In questo caso è impossibile mentire».

Lei insegna cinema ai giovani, ne incontra molti sui set. Cosa le piace e cosa non le piace proprio di queste generazioni?

«I giovani che vedo io sono quelli forse dotati di maggiore curiosità che vogliono confrontarsi con mezzi espressivi difficili che vogliono fare salti in avanti e mi piace. Mi piacciono meno quelli che si consolano nel gruppo nella collettività di appartenenza, nell’omologazione e questo succede anche se non ci sono più grandi ideologie. Per fare emergere la propria individualità c’è bisogno di isolamento, non dico di emarginazione, ma di distinguersi».

Le grandi ideologie del secolo scorso oggi effettivamente sono come evaporate, forse scomparse del tutto, dovremmo rimpiangerle?

«Secondo me no. Io ho vissuto molta parte della mia vita in un’Italia molto ingenua, in una famiglia che era metà socialista e metà democristiana. Ho vissuto entrambe le temperature, e in larga parte erano anche quelli pregiudizi. Purtroppo il problema è che scomparse quelle, in cambio abbiamo avuto una terza ideologia: quella più devastante del mercato, che in larga parte ha già vinto la sua tossica battaglia».

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