I 7 giorni che sconvolsero la Romagna

Rimini

RAVENNA. Nel tentativo di sedare una protesta antimilitarista ad Ancona, i carabinieri sparano sulla folla e tre manifestanti restano uccisi. È il 7 giugno 1914.

Ne nascono una serie di scontri in tutta Italia, sull’onda dello sciopero generale proclamato dai sindacati. Deflagra così quella che è passata alla storia come “Settimana rossa”, durante la quale nel ravennate si tenterà di fare nientemeno che la rivoluzione.

In vista del centenario di questo evento, il Comune di Ravenna ha recentemente tenuto a battesimo un comitato che si occuperà di valorizzare l’anniversario. Ne fanno parte, tra gli altri, il vicesindaco Giannantonio Mingozzi e gli studiosi Alessandro Luparini, Luca Dubbini, Laura Orlandini, Nino Carnoli e Marcello Landi.

La prima iniziativa, una sorta di introduzione agli eventi in programma per giugno (tra le alte cose, sono previsti spettacoli rievocativi e una mostra), è fissata oggi alle ore 17 a Casa Melandri. Nell’ambito della rassegna “I pomeriggi del gufo” dell’Università degli adulti “Giovanna Bosi Maramotti”, la fusignanese Laura Orlandini terrà una conferenza pubblica dal titolo “Il sogno della rivoluzione – La Settimana rossa 100 anni dopo”.

Orlandini, perché nel ravennate uno sciopero generale di portata nazionale si è trasformato in un tentativo insurrezionale?

«È una domanda che si sono fatti in molti. Nel 1914 il mito della Romagna “sovversiva” è molto vivo: la partecipazione politica era diffusa e la popolazione aspettava da tempo il momento di insorgere. Quello rivoluzionario faceva parte del linguaggio di forze politiche anche molto diverse tra loro, repubblicani, anarchici e socialisti, tutte ben radicate nel territorio».

Si arriva così ai tumulti di Ravenna del 10 giugno.

«Nel corso di un comizio che radunava gente da tutta la provincia, si scatenano dei tafferugli. Viene assaltata la chiesa del Suffragio, si tagliano i fili di telegrafo e telefono, viene isolata la prefettura. Al termine della giornata, i partecipanti tornano alle campagne portando la notizia: la rivoluzione è iniziata. Tutti hanno una bicicletta, e questo fa sì che la voce si propaghi rapidamente. Si è convinti che nel resto d’Italia si stia facendo lo stesso».

I rivoltosi si affrettano a proclamare la repubblica.

«Naturalmente non fu un atto ufficiale, ma azioni simboliche compiute dalle stesse comunità in sciopero, che presero forma nel cosiddetto rito dell’Albero della libertà. Se ne piantano tre: a Conselice, Massa Lombarda e Fusignano. Quest’ultimo, la cui foto farà poi il giro dei giornali, diviene il simbolo della rivolta. Ma la rivoluzione non si limita a questo. Vengono assaltate le chiese, distrutti circoli monarchici, bloccate le linee ferroviarie, organizzati posti di blocco. In alcuni casi, i rivoltosi organizzarono vere e proprie “requisizioni proletarie” nelle ville dei signori. A Savio, poi, riescono a prendere in ostaggio un generale: un “sequestro” di poche ore, passato probabilmente a giocare a carte, che da però l’illusione agli scioperanti di avere il controllo della situazione. Tuttavia non è che una fiammata».

In che senso?

«Già la sera dell’11 giugno iniziano ad arrivare le notizie che nel resto d’Italia non c’è nessuna rivoluzione e che, anzi, lo sciopero generale è pure finito. Così la rivolta si esaurisce da sé. Non si registrano infatti significativi scontri con la forza pubblica, se si eccettuano quelli di Ravenna. Arriva poi il momento della repressione: vengono arrestate molte persone, tra cui il sindaco socialista di Alfonsine. Ma non ci sono morti. L’unica eccezione è un commissario a cui piomba accidentalmente in testa una bottiglia di seltz durante i tumulti di Ravenna».

Che cosa rimase di quei giorni?

«La “Settimana rossa” animò molte speranze. C’era, infatti, chi la considerava una sorta di “prova generale” per una rivoluzione che sarebbe giunta presto. L’illusione sparì con lo scatenarsi della Prima guerra mondiale, che lacerò il “fronte rivoluzionario”: basti pensare che molti antimilitaristi, come il Partito repubblicano, divennero accesi interventisti. Così le “Settimana rossa” restò nella memoria come una “rivoluzione mancata”, di cui oggi resta poco. Questo centenario può essere pertanto un’occasione per ricordare e guardarsi indietro: che memoria hanno i ravennati di quel tessuto connettivo “sovversivo” che è stato per decenni il loro tratto distintivo?».

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