Muti e il senso più profondo di Verdi

Rimini

RAVENNA. Quando ci si appresta ad assistere a un’opera eseguita “in forma di concerto”, ci si rassegna da subito, mettendo in conto di rinunciare a qualcosa, alle scene, ai costumi, alle luci, insomma all’azione, al “teatro”. Non con Verdi però, perché il teatro è già tutto lì, nella musica, soprattutto se a “servire” quella musica è un interprete capace di coglierne il senso più profondo, come Riccardo Muti. Che al Pala De André, sul podio dell’Orchestra e del Coro del Maggio Musicale Fiorentino – i complessi con cui festeggiava i cinquant’anni dal primo incontro – ha diretto, appunto in forma di concerto, “Macbeth”.

Dunque, un’opera che può dirsi teatro allo stato puro, percorsa com’è, proprio negli intenti del suo autore, di magiche apparizioni e di veri e propri “effetti speciali”, che in questo caso non sono mancati al pubblico, perché nelle dinamiche scelte, nello sbalzo conferito ai piani orchestrali, nelle inflessioni ritmiche... insomma, nel gesto deciso e netto della direzione, nel suo “respiro”, tutto era già “visibile”. Come i crocchi di streghe nel temporale che apre l’opera: inconfondibili nei guizzi di legni e violini, nella concitazione dell’orchestra; o l’esitazione rabbiosa che progressivamente si insinua nella trama del brindisi forzato a cui la Lady, oramai regina, invita i cortigiani, mentre lui si smarrisce nella visione del fantasma di Banco... impercettibili scarti agogici, lievi trattenuti.

Sarebbe lungo l’elenco delle “scene” evocate, anzi delineate ed espresse compiutamente dalla sola musica, nel lungo filo che Muti tende attraverso tutti e quattro gli atti, punteggiato da respiri che gonfiano il suono per richiudersi repentini, da pause dense e cariche di un fuoco latente che esplode negli attacchi eloquenti e sferzanti. E guidando un cast di voci di indiscutibile valore: dalla Lady, “recitata” in ogni sguardo da Vittoria Yeo, voce agile e incisiva, dal Macbeth vigoroso di Luca Salsi, così come dal possente Banco di Riccardo Zanellato e dal timbro vibrante del Macduff di Francesco Meli. Per non dire del coro (preparato da Lorenzo Fratini), capace di seguire Muti nel dettaglio di infinite sfumature espressive.

Infinite perché nessuno come lui, riesce a restituire la grandezza di Verdi, a sorprendere il pubblico trasformando un’opera ascoltata tante volte – il “Macbeth” Muti, dal primo diretto nel 1975 proprio con il Maggio, l’ha inciso almeno una decina di volte, senza contare le esecuzioni dal vivo – in qualcosa di nuovo. Senza sciogliere, ma mettendo bene in vista l’enigma di un Verdi che passa dalla marcia infantile e “villereccia” del corteo di Duncano alle complessità di una nuova parola scenica: con i piedi ben piantati per terra (la sua terra) e la testa intenta a indagare le sottigliezze dell’animo umano, con il più raffinato ed efficace dei linguaggi.

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