David Byrne e l’America di oggi, quando l’utopia diventa musica

Ravenna

Compare addirittura nella 14ª stagione dei “Simpson”, più spigoloso e brizzolato che mai. Homer ha appena finito di comporre una canzone d’odio contro il suo vicino, “Everybody hates Ned Flanders”, ed ecco arrivare lui, David Byrne, l’ex frontman dei Talking Heads, pronto a produrla e a farla diventare una hit nazionale. La satira di Matt Groening coglie nel segno, e sottolinea un carattere fondamentale per capire l’importanza che Byrne ha rivestito per la storia della musica rock. Si tratta della sua curiosità multiforme, pronta ad appropriarsi di qualsiasi stile e genere, mescolarli e farli diventare qualcosa di nuovo.

Chi conosce i suoi lavori lo sa bene. Dagli esordi nel lontano 1977 con il primo album dei Talking Heads, passando per la loro pietra miliare “Remain in light”, nel 1980, e per tutta la sua carriera solista, sostenuta dalla collaborazione con Brian Eno fino all’ultimo recentissimo “American utopia” del 2018, lo stile del musicista americano ha sempre cambiato forme e stili, all’insegna dell’eclettismo più raffinato e intelligente.

La poliritmia africana, gli influssi post punk, lo studio approfondito sulle potenzialità della musica elettronica: nessuna sperimentazione è mai stata aliena a David Byrne. La sua figura esile e sincopata ha caratterizzato una stagione di vitalità irripetibile per le scene del rock mondiale, e anche per il cinema: la collaborazione con Sakamoto e Cong Su per la colonna sono de “L’ultimo imperatore” di Bertolucci, nel 1987, gli è valsa l’Oscar. E della fascinazione di Paolo Sorrentino per i Talking Heads è quasi superfluo scrivere.

Il concerto di questa sera al Pala De André, che chiude la stagione concertistica della 29ª edizione del “Ravenna festival” ispirata proprio al melting pot musicale americano, rappresenta dunque un’occasione imperdibile sia per tutti i fan di Byrne, sia per chi volesse capire qualcosa dello sviluppo della musica rock negli ultimi 30 anni.

Si tratta di uno spettacolo ambizioso, totalmente coreografato, in cui ognuno dei musicisti ha una precisa funzione e movimenti prestabiliti. Uno spettacolo che ha suscitato l’entusiasmo dei critici di tutto il mondo. E per citare una sola firma, il critico Alexis Petridis del Guardian ha definito lo show di una bellezza «disarmante», «strano» e «incantevole», e l’ha paragonato a un capolavoro del lontano 1984, quando Byrne firmò la regia del live “Stop making sense”, filmato dal regista Jonathan Demme e disponibile per tutti i curiosi su Youtube (di cui è caldamente consigliata la visione per prepararsi al nuovo show). D’altronde è proprio lo stesso Byrne che ha azzardato il parallelismo, definendo questo “American utopia tour” «lo show più ambizioso che ho fatto da “Stop making sense”».

Come indica lo stesso titolo, il tour mondiale nasce per presentare l’ultima fatica del musicista, che conferma una volta ancora la fertilità del suo lungo sodalizio con Brian Eno, autore di tutte le canzoni al fianco di Byrne.

L’approccio di quest’album, che arriva dopo ben 14 anni dall’ultimo lavoro solista, non si distacca dai lavori precedenti: l’inconfondibile timbro di Byrne è sostenuto da un fitto intreccio di funk, world music e melodie rock. I testi delle canzoni descrivono la realtà americana contemporanea e sono sostenuti da uno sguardo distaccato, spesso critico o ironico. Si registrano i desideri frustrati, le paure e le aspirazioni di una società in cerca di un’utopia possibile anche se non definita, «ben decisi a non soccombere alla disperazione o al nichilismo», come ha spiegato Byrne.

Un’utopia che si potrà ascoltare dal vivo stasera alle 21, al Pala De André, durante un concerto che si preannuncia imperdibile e per certi versi anche storico per la Romagna intera.

Info: ravennafestival.org

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