Spicchi d'arte tra cielo e terra

 

RAVENNA. Il cielo e la terra. L’universo, le sue costellazioni luminose, circondate dall’oscurità, e i segreti più intimi della materia segnata dall’acqua e dal tempo. Buio e luce. Lo sguardo dell’artista ravennate Laura Baldassari è attratto dal cosmo infinito e dai misteri degli elementi, dagli spazi immensi e dai microscopici enigmi che si celano sotto specchi palustri in cui respirano silenziose forme di vita vegetale.

«Mi piace pensare che gli artisti e gli scienziati analizzino il mondo in modi sorprendentemente simili, per entrambi è chiaro il punto di partenza ma ignoto è l’arrivo, è una questione di sguardi, di temperatura del respiro».

Nei suoi oli su tavola, su marmo o nelle sue opere a tecnica mista su carta si incontrano contrasti, atmosfere cristallizzate e palpiti vitali, grovigli di linee che tracciano mappe geologiche e arabeschi che si disfano in bagliori di colore.

Dopo aver frequentato l’Accademia di belle arti di Bologna, aver vinto il primo premio pittura del concorso Miur e quello Ram, Laura nel 2007 ha iniziato a collaborare con alcune gallerie italiane e estere, soprattutto in Germania, inaugurando diverse mostre personali. Nel 2011 è stata selezionata per partecipare alla 54ª Biennale di Venezia dove ha esposto alle Tese di San Cristoforo. Da otto anni vive a Milano, ma nelle sue opere ci sono il mistero e il fascino della sua Ravenna.

«Sento molto le mie origini, molto del mio lavoro parte dal mio vissuto».

Nelle tavole con i volti ieratici, dal pallore perlaceo avvolti dalle tenebre si ritrova l’iconografia bizantina, la luce dei mosaici, delle pietre, il sacro che si fa mistero. Quell’immobilità, quel rigore che si plasma di lampi e di ombre nelle basiliche, tra archi e colonne, solitudini e oblii. Negli olii, in cui specchi di palude celano vibrazioni e raccoglimenti, ci sono le acque torbide di Piallasse, il polo chimico e la natura che cerca di sopravvivere.

«Nelle grandi geografie il fitto brulicare di segni microscopici porta lo sguardo a oscillare tra dimensione zenitale e quella microscopica creando uno spostamento improvviso della percezione e delle distanze. Sono al contempo grandi mappe e piccoli vetrini da laboratorio. Sono partita dalla catalogazione delle piante sommerse, poi l’acqua si è asciugata per far emergere le terre che creano immagini instabili, piccoli movimenti, tremolii. Da qualche tempo ho abbandonato la figura umana, come inghiottita dalla natura primitiva che sta rinascendo, una rivincita. L’intervento dell’uomo è violento e affascinante ma non così forte da sovrastare ogni cosa, è come se l’uomo avesse bisogno della catastrofe che permette di sciogliere le logiche precedenti per ricostruire sempre nuovi scenari».

Che cosa l’attrae dell’ambiente palustre?

«Nella palude è insita una duplicità misteriosa: c’è l’acqua che è elemento da cui nasce la vita, ma allo stesso tempo c’è un muoversi sordo, qualcosa di primordiale».

Dalla terra ai pianeti. Come nascono le opere dedicate allo spazio, al cosmo?

«Sono estremamente affascinata da tutto ciò che ci permette di scoprire realtà sconosciute, dalla cosmologia alla biologia molecolare, è solo una questione di sguardi e proporzioni. Con la serie di lavori “Henrietta S.L.” ho voluto ricreare le mappe delle costellazioni, creare percorsi astrali, accartocciare le stelle significa trascinare queste masse gassose nella materia solida, avvicinarle a noi per un istante».

A quale luogo di Ravenna o della Romagna è più affezionata?

«La zona che amo di più è la spiaggia della Bassona, oggi purtroppo bruciata e inaccessibile, ma è un luogo ancora selvatico dove affiorano isolette e l’atmosfera è incredibile, ci sono capanni, l’odore della pineta permeava ogni cosa. A Marina di Ravenna al contrario si è fatto uno scempio, non c’è una progettazione coerente, invece di valorizzarne le caratteristiche il luogo è stato snaturato. Nella costa romagnola si è stati distruttivi, poi ci si è pentiti, ma sempre troppo tardi».

Che cosa le manca della Romagna?

«La schiettezza e la verità».

Sta preparando una mostra a Colonia. Perché, secondo lei, le sue opere vengono apprezzate così tanto in Germania?

«Forse perché sono molto legate alla nostra tradizione pittorica».

Grandi tavole e piccole lastre di marmo. Come si coniugano dimensioni così diverse?

«Le lastre in onice bianco sono molto leggere visivamente, è come se la pittura affiorasse in superficie dall’interno, in esse penetra la luce come un frammento di materia spaziale in cui qualche particella si sta agglomerando per creare una nuova visione, più intima. Le grandi opere al contrario ci sovrastano, mi piace far convivere gli opposti, perdere le coordinate e capovolgere le certezze».

Cosa significa essere giovani artisti oggi?

«Viviamo nella “contemporaneità del tutto”, penso sia molto importante avere un buon senso dell’orientamento, sperimentare senza dimenticare le proprie origini ed essere molto coraggiosi».

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