Ferdinando Scianna a Forlì presenta la sua antologica di settembre

Forlì

FORLI'. Ferdinando Scianna è tornato oggi a Forlì per presentare la sua grande mostra antologica che  inaugurerà il prossimo 22 settembre, e resterà fino al 6 gennaio 2019, ai musei San Domenico. "Viaggi, racconto, memoria" è il titolo dell'antologica curata dallo stesso grande fotografo siciliano apposta per Forlì, grazie a Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, Civitas e Settimana del Buon Vivere, che dopo l'esordio si trasferirà a Palermo e Venezia l'anno prossimo, per  poi fare tappa anche in altre città europee. Duecento scatti in cui sono condensati 50 anni di lavoro, un progetto che lo stesso Scianna aveva anticipato al Corriere Romagna in un'intervista a settembre dell'anno scorso che ripubblichiamo.


Henry Cartier Bresson gli aveva insegnato a «non mettere mai in posa il mondo». Lui, il primo fotografo italiano alla Magnum, quando era poco più che trentenne, introdotto nel tempio dallo stesso mostro sacro e fondatore dell’agenzia, non ha avuto problemi a diventare fotografo di moda allo scoccare degli anni Ottanta. Ma prima era già stato reporter e fotografo per l’Europeo, ancora prima giovanissimo pupillo e poi amico di Leonardo Sciascia, prima e dopo fotoreporter indipendente. Ferdinando Scianna, classe 1943, ha segnato la fotografia italiana e non solo, quest’anno viene a Forlì il 30 settembre per parlare del suo lungo e ricco viaggio di esperienza e di vita. Ma l’anno prossimo, come svela in questa intervista, porterà ancora di più: una nuova grande mostra antologica.      

   
Parliamo di persone. Lei ne ha ritratte parecchie. Come si pone il fotografo davanti alla persona che sta fotografando?
«Innanzitutto il fotografo è una persona. Fare foto è un modo per specchiarsi nel mondo, riconoscersi nelle persone che si incontrano. Questo incontro con gli altri costruisce i nostri sentimenti, le nostre passioni, i rancori, gli entusiasmi, le persone sono il territorio in cui tutti noi viviamo. E anche se si fotografa solo un paesaggio, le persone ci sono dentro lo stesso, sempre».


Quando scatta qual è la prima cosa che guarda in chi ha di fronte?
«La sua fisionomia, ma per cercare di capire il suo carattere. Le persone sono altro da me ma simili a me, entrambi siamo protagonisti del teatro della vita, in cui ognuno ha il suo ruolo così cambia anche il modo in cui lo si fotografa. Ogni persona la si fotografa diversamente. Le persone di cui siamo innamorati le fotografiamo in un modo che è diverso da come fotografiamo qualcuno che ci sta anche solo un poco antipatico. Insomma, fare foto è un po’ la continuazione della vita».


Lei si è definito “un fotografo che scrive” perché ha fatto anche a lungo il giornalista. Mette questi due linguaggi, foto e scrittura, alla pari?
«Metto la scrittura più in alto, ma sono io che in quell’ambito sono un po’ più in basso rispetto a dove mi sento quando invece faccio fotografie. Però sono ugualmente strumenti per esprimere quello che ci piace, che detestiamo o ci sorprende. Non capisco chi dice “amo la fotografia”, o chi dice “amo la scrittura”. Dipende cosa devi raccontare, è quello che racconti che puoi amare. Perciò dico che la “bella fotografia” in sé per sé non mi interessa, mi interessa cosa sa raccontare».


Della inconclusa discussione se la fotografia sia arte e quanto lo sia, che ne pensa?
«Che sia una discussione priva di appeal. Dopo due secoli la fotografia si estingue nel momento in cui arriva al proprio apice. Non so, forse dipende dall’equivoco per cui si pensa che sia arte ciò che in genere è considerato bello. È una antica e incomprensibile necessità quella di mettere su carta quello che si vede o si immagina, ma la fotografia non si può disegnare, si riceve. Cezanne poteva disegnare le sue mele anche se non le aveva davanti agli occhi, io senza quelle mele davanti a me la foto delle mele non la posso fare. Il fotografo interpreta».


Dipende da questo suo pensiero il fatto che non ama particolarmente le mostre?
«Amo le mostre di pittura. Le mostre di fotografia poco... forse è perché non le so fare. O forse si è condizionati troppo dall’arte e concepiamo una mostra di fotografia troppo come una mostra di quadri. Credo che la fotografia si avvicini di più al teatro e alla letteratura che alla pittura. Per questo mi appassiona molto di più il libro dove le fotografie sono un po’ come le frasi per un romanzo e sfogliandolo ritrovo i miei pensieri. Perciò sono un po’ terrorizzato per l’anno prossimo...».


Cosa succede l’anno prossimo?
«Che mi hanno chiesto una mia mostra antologica proprio per Forlì e questo mi crea un po’ di angoscia, non fosse altro perché a una certa età c’è sempre il rischio che si trasformi in qualcosa di postumo... Comunque ci sto lavorando, sono anche a buon punto. Ma pensare a una mostra antologica è come tirare fuori dal corpo un fegato e da quel pezzo voler ricostruire un intero corpo umano. Comunque ho detto che ci voglio provare e mi sto inventando un “tessuto narrativo” ... si dice così no?».


Dovrà fare i conti anche con molta della sua memoria per preparare questa mostra. A proposito, con il digitale che racconto di questa epoca stiamo costruendo e soprattutto che tracce riusciremo a lasciarne per la memoria futura?
«Quello che ci è piovuto addosso in questi ultimi 30 anni è qualcosa di furibondo. Ancora trent’anni fa facevamo le foto in quattro gatti, era complicato, serviva tecnica, competenza. Oggi, ho letto, che in un giorno si scattano più foto di tutte quelle scattate nei primi duecento anni di fotografia. Mentre io e lei parliamo si scatta l’equivalente di qualche decina di anni di storia della fotografia. Posso dire che la memoria fotografica aveva fino a poco tempo fa un monumento che ora non esiste più: l’album di famiglia. Per riempirlo si sceglievano le foto significative che raccontavano i momenti importanti della vita, si stampavano, si dava loro una collocazione. Oggi magari si fanno mille foto in un giorno, ma non si scaricano neppure, non si vanno a riguardare, se ne cerchi una di cui ti ricordi è molto probabile che non la trovi nemmeno. Mi chiedo chi studierà la nostra storia fra cento anni o mille, come farà? Francamente non lo so, ma vedranno loro, nel futuro».


La sua personale idea di “buon vivere”?
«Credo che sia identica alla sua: essere meno infelici possibile. Essere felici è un po’ più difficile. Ad esempio adesso io lo sono: faccio il bagno al mare, prendo il sole, mi riposo, cucino, mangio, leggo. Non credo che vorrei stare sempre così, ma il più possibile sì. Il buon vivere è lo scopo principale della vita dell’uomo».       

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