Dolore, solitudine e violenze sull’anima: 36 storie ispirate alle schede di donne internate

Imola

SAN MARINO. «Nel 1866, all’età di tredici anni, Luigia si era innamorata perdutamente del poeta ciabattino Giustiniano Villa (…) che nelle fiere di paese (…) cantava la miseria dei contadini. Luigia lo guardava con ammirazione, sognando di condividere quel palco e quella fama (…). Dopo qualche anno ne divenne l’amante. Al richiamo del fischiettio del poeta-ciabattino, accorreva nel suo antro e tra scarpe e tacchi, suole e odore di cuoio, si concedeva. Un giorno Luigia capì che non ci sarebbero stati più richiami e da allora il pensiero del poeta divenne un verme, che dalla pancia si distese fino al cervello, per conquistarlo tutto».

È uno dei racconti che Karen Venturini, sammarinese da parte di madre, ha raccolto nel suo Melanconia con stupore (Raffaelli Editore) che viene presentato oggi alle 17 alla Biblioteca di Stato di San Marino, in contrada Omerelli, con un intervento dello psichiatra Leonardo Montecchi.

Figlia dello psichiatra Ernesto Venturini, collaboratore di Franco Basaglia sia a Gorizia che a Trieste, Karen ha conosciuto indirettamente l’esperienza della chiusura degli ospedali psichiatrici e della nascita della legge 180. Docente all’Università di San Marino, relatrice e autrice di pubblicazioni scientifiche, a un certo punto della vita ha sentito il bisogno di pubblicare questo libro in cui ha elaborato 36 brevi storie, ispirandosi alle schede di internamento in manicomio delle donne negli ultimi anni dell’Ottocento, denunciando le violenze inflitte sui loro corpi e sulle loro anime.

«I brevi racconti nascono a seguito della consultazione casuale di materiale proveniente da ambiti manicomiali italiani: un centinaio di schede identificative degli internati dal 1870 al 1890, fotografie delle camerate, dei malati».

A guidare la sua delicata e coinvolgente operazione letteraria, i ritratti fotografici e i dati identificativi; la libertà narrativa non toglie nulla alla realtà, anzi, ne moltiplica la tensione drammatica, figlia di esperienze mai dimenticate.

«Tra i ricordi visivi della mia fanciullezza ci sono i viali alberati dell’ospedale psichiatrico di Trieste; la scritta all’entrata del complesso “La libertà è terapeutica”; Marco Cavallo, l’enorme cavallo blue di cartapesta simbolo della liberazione, gli abbracci e i baci dei matti con la saliva che rimaneva sulle mie guance e poi un libro intitolato Non ho l’arma che uccide il leone di Peppe Dell’Acqua, un collega di mio padre che aveva raccolto le storie dei folli riportandole con lo stesso linguaggio, sincerità e freschezza con la quale li aveva sentiti raccontare. Quel libro mi aprì gli occhi e il cuore, mi avvicinò al loro dolore e alla loro solitudine. Continuai a frequentare i matti e i loro ricoveri, fino all’ospedale “Osservanza” di Imola del quale mio padre assunse la direzione negli ultimi anni prima della chiusura».

Anche qui i ricordi sono vivi come la grande festa organizzata insieme alla presenza di tanti artisti nel 1996 per celebrare lo storico evento. Grande il successo riscosso dal libro che è stato presentato sia in Italia che all’estero, «tra le presentazioni più interessanti quella di Algeri, grazie al confronto con l’esperienza delle donne nordafricane».

Ora ne è stato tratto un lavoro teatrale la cui prova aperta si terrà il 16 giugno a Montescudo, ad opera del Collettivo Arteda – L’Attoscuro.

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