Beirut, “Welcome to Chatila beach” il non luogo del massacro impunito

FORLì. Il 2 giugno sarà una giornata importante per Matteo Lolletti, giovane regista e docente universitario forlivese, che presenta nella sua città, all’Exatr (ore 20.30) il suo ultimo documentario Welcome to Chatila beach all’interno del festival Meet the docs.

Non è “fuori moda” allora parlare ancora di Libano.

«Eravamo in quel paese per girare un altro documentario, This is not paradise, uscito qualche anno fa e dedicato alle donne migranti che a Beirut, una città complessa e incomprensibile, molto occidentale per tanti aspetti e assolutamente araba per altri, come collaboratrici domestiche vivono una nuova forma di vera e propria schiavitù. Ma per la mia generazione e non solo, il massacro di Sabra e Chatila, che allora erano due campi profughi palestinesi nella periferia meridionale di Beirut, è stato “il” massacro per antonomasia: centinaia, forse migliaia di palestinesi e libanesi massacrati impunemente sotto lo sguardo complice e silenzioso dell’esercito israeliano, durante la seconda invasione del Libano, nel 1982. Poi Sabra e Chatila sono scomparse dalle nostre narrazioni, dalle mobilitazioni, dal nostro facile o giusto sdegno, nonostante l’Onu avesse dichiarato il massacro “un atto di genocidio”. Così a noi è sembrato ovvio andare con le nostre videocamere a Chatila, per capire cosa sia oggi e non rimanere accecati dall’ipocrisia della Storia».

E cosa avete trovato?

«Chatila è oramai un quartiere di Beirut, per quanto separato dal resto della città da un cordone quasi murario, con tanto di porte. Vi vivono ancora, e per certi aspetti ancora come profughi, centinaia di palestinesi, che hanno lì la loro esistenza, ma non possono svolgere una lunga lista di lavori, non sono sempre graditi, quindi la loro vita è particolarmente dura. Molte ong internazionali lavorano a Chatila, perché quelle che attraversano questo luogo sono esistenze spesso “zoppicanti”, “incomplete” che finiscono per rendere il quartiere quasi un non-luogo, per quanto intrecciato di umanità e quotidiano. Ecco, oggi Chatila è una soglia, uno spazio teoricamente precario e temporaneo che invece si fa cemento, che imprigiona, che diviene una permanenza pur promettendo un ritorno altrove. E questo ha una particolare rilevanza oggi, rispetto ad altri veri campi profughi».

Che influenza ha avuto, in questo sguardo, l’occhio del documentarista?

«Io credo che il reale sia un dispositivo scardinante, e adottarlo come metodo di racconto cinematografico porta sì a elaborare comunque una rappresentazione, ma rendendola un atto, un agire. Rocco Ronchi dice che l’audiovisivo “è ciò che le cose pensano” ed è vero, com’è vero che le immagini vere sono quelle traumatiche… non necessariamente in senso visivo. Rispetto a Welcome to Chatila beach, però, la narrazione che ho scelto è frutto dell’esperienza diretta. Da un lato c’è la Storia, algida, scientifica, ipocrita e manipolatrice, e dall’altro ci sono “le” storie, la mia personale e quelle di chi era con me in quei giorni, poi le nostre, di occidentali a Forlì, e infine quelle che abbiamo lasciato lì, sia nel 1982 che trent’anni dopo. Per questo il documentario è molto parlato, a tratti è quasi un diario».

Chi deve ringraziare?

«Sicuramente chi era con me a Beirut. Sono stati giorni duri e complessi, che ci hanno unito e diviso, che hanno lasciato tracce permanenti. Non che sia stato particolarmente pericoloso, diciamo che è stato intenso, bello e violento. Senza Lisa Tormena, Marco Bacchi e Gaia Vianello, sia a livello tecnico che umano, il documentario non sarebbe mai nato, e anche per questo è un prodotto che definirei intimo, e per certi aspetti frutto della casualità e della paura di quel preciso momento in cui ci siamo avvicinati a Chatila. Ma parlo anche di quando siamo tornati e di chi ha prestato la propria arte gratuitamente per la riuscita del film, gli attori Claudio Casadio, Giampiero Bartolini, Marco Camorcia e Laura Sciancalepore, e musicisti come Claudio Rocchetti, che hanno creduto nel progetto e nel suo senso. E non posso che ringraziare Sunset, la casa di produzione che ha reso tutto possibile».

Lei dice che parlare di Chatila è in realtà parlare di Europa.

«Perché Chatila è uno dei più grandi e disgustosi rimossi della contemporaneità, qualcosa che si struttura come un alibi, per certi aspetti, che denuncia le manipolazioni e le storture operate dalla Storia intesa come metodo occidentale di racconto, ma anche la rassegnazione e la complicità della nostra quotidianità. Ma parla di noi anche perché Chatila è un archetipo di amore e di morte, come la descriveva Jean Genet nelle sue Quattro ore a Chatila laddove cercava di figurarsi il carnefice e non ci riusciva, salvo poi riconoscerlo in noi stessi. Chatila è un massacro impunito, stordente nella sua barbarie, ma mi interessano soprattutto il nostro rapporto, la nostra memoria, il nostro presente che ignora, l’incapacità di sdegno di fronte all’evento, la volontà di scrostare i muri per non vederne il colore ma senza abbatterli».

Il documentario è stato girato nel 2013.

«Ma ho voluto che si depositasse, insieme all’esperienza in sé. Quando ho capito che non riuscivo più a non raccontare questa storia, allora ho cominciato a montarlo. Era da tempo che non lavoravo a un mio documentario ed è stato un nuovo modo di scegliere il reale. Insomma, dopo tanto attendere e lasciare che le cose accadessero, sabato sarà la prima assoluta».

Quali storie porta con lei dall’esperienza in Libano, e quali incontri?

«È Beirut stessa l’altra storia che mi sono portato a casa oltre a quelle narrate nei documentari: Beirut, che è una città indecifrabile, caotica, sporca e insopportabile, ma bellissima, affascinante e indimenticabile. Una città pericolosa e accogliente, una soglia culturale e religiosa, un passaggio permanente, un equilibrio che non ti spieghi e che ogni tanto esplode, in cui ti pare di essere sulle ramblas a Barcellona o nel più remoto dei paesini siriani. Una città ferita e ancora militarizzata, con i palazzi pieni di buchi di mortaio e il negozio della Ferrari con gli ultimi modelli in esposizione. Una città che già qualche anno fa si riempiva di profughi siriani e che oggi rischia il rifiuto, o un nuovo rimosso, in cui i taxi sono religiosamente determinati e in cui alcuni quartieri rispondono a regole proprie e magari ci si spara da una via all’altra. Ma anche una città che davvero sembra la Parigi del Mediterraneo, con una vitalità, cieca, disperata, materica, che solo in alcune capitali europee puoi vedere, ma che non pensa al domani perché sa che il domani non è mai sicuro. Lì, ho incontrato molti cooperanti internazionali e li ricordo quasi tutti, perché tutti hanno storie che meriterebbero di essere raccontate. Al netto di tutte le fesserie sulle Ong degli ultimi tempi, ci sono persone che fanno un lavoro prezioso e imprescindibile, senza il quale la situazione deflagrerebbe. Molti sono fra coloro che anni fa affermavano di voler cambiare il mondo, e lo stanno effettivamente cambiando, stanno impedendo che la situazione precipiti definitivamente e in maniera irreversibile. Poi ci sono anche gli altri, quelli che spesso sono i cattivi. Ma parlo di luoghi che si basano su compromessi ed equilibri delicati, in cui le selvagge strutture economiche contemporanee condannano a esistenze dannate, luoghi in cui il potere è esercitato solo in maniera repressiva: noi non abbiamo potuto girare per più di una settimana, perché le autorità non ci davano le autorizzazioni considerando il nostro documentario pericoloso e denigratorio. E ci sono le religioni, spesso usate come dispositivo di controllo e relazionale lesivo della libertà individuale, o gli alibi culturali o la brutalità del mercato. Ma per citare il tema di Meet the docs di quest’anno: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”».

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