«Il trafficante di uomini non è lui. Tutti lo sanno, tranne la giustizia»

Rimini

GIULIA FARNETI

Se ne è parlato moltissimo in Europa ma quasi per nulla in Italia. Si tratta del caso giudiziario che ha visto, nell’estate di due anni fa, il sostituto procuratore di Palermo annunciare di aver arrestato il trafficante di essere umani più ricercato al mondo: Medhanie Yehdego Mered. L’uomo, tuttora in carcere, non sarebbe però il vero criminale, bensì un innocente, vittima di scambio di persona.

A parlare de “Il caso Mered” – alle 18.30 di venerdì 1 al Palazzo del Turismo di Riccione – sarà il giornalista Lorenzo Tondo insieme al reporter Ali Fagan e al documentarista Hans Peterson Hammer, in occasione del “Dig” 2018, festival del giornalismo d’inchiesta che si terrà dall’1 al 3 giugno.

I tre sono autori e produttori di Generalen, l’inchiesta condotta tra Africa ed Europa che ha rivelato il caso. Un successo mondiale nato a Riccione lo scorso anno e prodotto dalla tv svedese Svt e dal Guardian.

Tondo, perché il caso Mered è stato quasi ignorato in Italia?

«È una domanda che mi pongo da quando ho iniziato a lavorare su questo caso. Non ho una risposta. Non ho una prova. Ho però la sensazione che molti colleghi non abbiano avuto il coraggio di confrontarsi con la verità per paura di scontrarsi con una Procura, quella di Palermo, non certo abituata a fare delle figuracce come questa. Dovevano catturare il re del traffico di esseri umani, nella rete c’è invece finita una delle sue potenziali vittime».

A parte il nostro Paese, chi se ne è occupato?

«I Paesi sono tanti: Svezia, Olanda, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Uganda, Germania e Canada. Il Guardian è stato il primo a sollevare il caso; il New Yorker ha dedicato alla vicenda ben 10 pagine a firma del giornalista Ben Taub; Le Monde in tre inchieste a doppia pagina ha parlato di “farsa giudiziaria’’; il Wall Street Journal con un pezzo in prima pagina ha messo in discussione l’affidabilità dei magistrati palermitani; il Globe and Mail senza mezzi termini sottolinea il totale fallimento della giustizia italiana; e ancora Al Jazeera, Radio France International, New York Times e le emittenti Bbc e la Svt svedese».

Lei come ne è venuto a conoscenza?

«Poche ore dopo l’annuncio dell’arresto di quello che doveva essere il trafficante Medhanie Yehdego Mered, la redazione del Guardian a Londra mi inoltrò decine di denunce arrivate al desk da parte di eritrei che vivevano in Europa. Tutti sostenevano che l’uomo estradato non fosse “il Generale”, così infatti viene chiamato. Erano denunce che non potevamo ignorare. Fummo i primi a sollevare i dubbi sull’identità del ragazzo. Da due anni ci occupiamo del caso senza mai perdere un’udienza».

Chi è questo Mered?

«Mered è un trafficante di uomini che ha accumulato un bel po’ di quattrini trasferendo migliaia di persone dall’Africa all’Italia. È un uomo spavaldo, arrogante. I suoi affari si estendevano da Khartoum a Tripoli, dal Sudan al deserto del Sinai. Amava farsi chiamare “il Generale” e si paragonava al raìs libico Gheddafi».

Perché solo il “Guardian” ha avuto dubbi sull’innocenza dell’eritreo?

«In realtà il Guardian fu il primo a sollevare i dubbi, ma le testate estere e le poche italiane che si sono occupate del caso sono arrivate tutte alla stessa conclusione: l’uomo in carcere è la vittima di uno scambio di persona».

Lei è stato anche oggetto di intercettazioni. Perché?

«Scriveva Mimmo Candìto, che è stato uno dei più grandi corrispondenti di guerra in Italia, scomparso di recente, che “la presunta neutralità del quartier generale si dissolve sempre in una classificazione dei giornalisti schedati secondo il loro grado di appoggio all’operazione in corso: quanto più critico si mostra un giornale o il suo corrispondente, di tanto scivolerà verso il basso della classifica del suo gradimento”. Che dire? Io evidentemente devo essere piombato davvero in basso in quella hit parade».

Il vero Mered ora dove si trova?

«Si trova in Uganda, a Kampala, dove spende i proventi il traffico in nightclub e discoteche. La Svt ha trovato prove precise sulla presenza di Mered in Africa e decine di testimonianze».

Quale significato deve avere per lei oggi il giornalismo?

«Rubo le parole di Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia nel 1884. Fava credeva in un concetto etico del giornalismo. Riteneva infatti che in una società democratica e libera il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Diceva Fava che un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. E lo stesso cronista sottolineava come “un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare’’. Ecco, io credo che la maggioranza della stampa italiana, se ha una coscienza, si porterà dietro il dolore che ha causato a un ragazzo innocente rinchiuso in una cella per due anni».

Non è il primo caso in cui la giustizia fa errori mettendo un innocente in carcere. Cos’è per lei la libertà?

«No, infatti non è il primo. Penso a Enzo Tortora, penso a Rubin “The Hurricane” Carter, il pugile condannato a tre ergastoli per un triplice omicidio che non aveva mai commesso. La libertà è il senso della vita. Senza di essa non c’è vita. Se te la tolgono per errore, ti portano via pure l’anima».

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