«Comunicare con gli altri è un’urgenza. Indago i racconti della vita quotidiana»

Rimini

RAVENNA. Assieme a Marco Paolini, Gabriele Vacis e Laura Curino, Marco Baliani, classe ’50, è considerato tra i più grandi esponenti italiani del teatro di narrazione. Il suo spettacolo Kohlhaas, che lo fece conoscere al grande pubblico nell’89, è già ritenuto un classico. La lunga e fortunata carriera che seguì quel debutto ha portato Baliani a cimentarsi con altre forme artistiche (cinema, romanzo, opera), assurgendolo a uno dei maestri più amati e apprezzati del teatro italiano. In occasione della presentazione del suo ultimo libro Ogni volta che si racconta una storia (Laterza), oggi per Scrittura festival (ore 17 in piazza Unità d’Italia; in Classense in caso di maltempo) gli abbiamo fatto qualche domanda.

Da decenni calca le scene di tutta Italia col suo teatro di narrazione. Il suo libro è uscito nel 2017. C’è stato un motivo particolare per questa uscita?

«Dagli anni ’80 lavoro sull’oralità e sul racconto. Ho scritto altri libri che riflettevano su questi temi: nel ’89 “Pensieri di un raccontatore di storie”, più tardi, per Titivillus, “Ho cavalcato in groppa ad una sedia”. Ho continuato a riflettere sulle motivazioni che mi hanno spinto a cercare questa particolare forma di teatro. Questo libro, a differenza degli altri, non parla della narrazione artistica ma si concentra sull’atto puro della narrazione: indago i racconti della vita quotidiana».

Perché abbiamo bisogno di storie?

«Più che di storie, abbiamo bisogno del rapporto che la storia crea. Mi sembra più interessante la relazione che si istituisce nel racconto, piuttosto che il contenuto della storia. È l’oralità in quanto tale che mi affascina: quando racconti guardi negli occhi il tuo pubblico, crei una relazione corporea. L’atto della narrazione presuppone di essere almeno in due: non si può raccontare da soli. Mi incuriosisce quello che accade durante questa relazione, sentire l’urgenza di raccontare qualcosa che ci ha toccato da vicino. È questa la molla che permette l’atto della comunicazione».

Nel suo libro cita una bella frase di Blaise Cendrars: «L’esuberanza del cuore fa parlare la bocca». Cosa significa per lei?

«Si parte sempre dall’urgenza di voler comunicare coi propri simili. Mi domando quando sia iniziato tutto questo. Forse una delle prime manifestazioni del senso di appartenenza a una comunità umana è stato proprio il tentativo di costruire un racconto. Una danza attorno al fuoco, espressione primitiva del bisogno di condivisione. Finché condividi sei vivo, la tribù è ancora viva. Dopo non si sa. Per questo Shahrazad deve continuare a raccontare».

Siamo attorniati da tecnologie che ci permettono una ricchezza di stimoli narrativi impensabili. Secondo lei la relazione fra gli uomini sta venendo meno? Ci stiamo disabituando a raccontare?

«Più che a raccontare, ci stiamo disabituando alla relazione, e forse ciò è ancora più pericoloso. Basta entrare in una metropolitana per accorgersi di quanto i nostri occhi siano concentrati su questi dispositivi: un popolo di zombie che guarda un francobollo. Ci sono aspetti positivi, certamente: abbiamo accesso a una quantità di informazioni impensabili fino a qualche anno fa; ma d’altra parte è come se tutto il mondo si fosse ridotto a un quadratino. Non alziamo più gli occhi per incontrare gli altri. Ma vedo che ancora, non appena le persone escono da questa gioiosa trappola che è la Rete, la voglia di comunicare rimane. C’è tanta voglia di vedersi e di parlarsi. Chiacchieriamo fino all’esaurimento».

In un pezzo che ha scritto per il Domenicale del Sole 24 Ore ha parlato dei grandi narratori che ha incontrato nella sua vita. Sua nonna, un vecchio zio, un professore delle medie: non sapevano nulla dell’arte attoriale, ma erano fabulatori straordinari. Vengono in mente i racconti di Dario Fo, che come lei viene dal Lago Maggiore. Narratori si nasce o si diventa?

«È una domanda difficile. Un narratore puro ha indubbiamente un talento naturale. Non so da dove gli arrivi: dal Dna, dalla sua storia. Forse un grande ruolo ce l’ha la formazione che si è avuta durante l’infanzia. Se non avessi avuto certe figure intorno a me non avrei mai sviluppato questa voglia di raccontare. È un miscuglio di fattori che neanche la genetica può spiegare».

Perché ha iniziato a raccontare storie?

«Ho cominciato a raccontare perché facevo teatro, lavorando con bambini in luoghi colpiti da grande disagio sociale. Con loro ho provato a vedere che cosa succedeva se cominciavo a raccontare, quanta attenzione riuscivo a farmi dare dal loro corpo ipercinetico. È stato un esperimento. Ma forse la voglia l’avevo dentro già da prima. Mi è sempre piaciuto raccontare e soprattutto ascoltare storie. Per raccontare bene bisogna saper ascoltare gli altri, essere curiosi. Alle elementari ero quello da cui gli altri andavano a raccontare i loro problemi: ho accumulato storie».

Dopo anni sui palchi ha capito perché alcune narrazioni, semplicemente, non funzionano?

«Le storie funzionano quando sono efficaci. L’efficacia ha a che fare coi ritmi del racconto. Quando racconti devi capire se in quel momento vieni seguito oppure no, e questo lo vedi perché stai davanti ad altre persone. Il racconto non è un monologo teatrale: guardi negli occhi gli spettatori. Lo vedi da quelle povere cavie se il racconto dura venti minuti in più di quanto dovrebbe: sbadigliano, si ammosciano sulla sedia, si distraggono. Hai perso qualcosa. Il racconto viene costruito dagli ascoltatori, non dal raccontatore. Questa è la cosa bella».

Alle 18 ospiti Marco Paolini e Gianfranco Bettin; alle 21 arriverà invece Ermanno Cavazzoni.

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