Né jazz, né pop, ma entrambi: The Manhattan Transfer

Rimini

RAVENNA. La parata di stelle internazionali nel programma di Ravenna jazz 2018 prosegue stasera alle 21 al teatro Alighieri, con The Manhattan Transfer. Il quartetto vocale americano è probabilmente il più famoso al mondo, con una carriera lunga cinquant’anni, nel corso della quale hanno sondato ogni genere musicale, fissando gli standard della vocalità. Pochi giorni fa hanno pubblicato “The junction”, il primo album dopo la scomparsa, alla fine del 2014, del leader e fondatore Tim Hauser.

Nel 1981 il quartetto vinse il Grammy Award per la miglior canzone jazz e quello per la miglior canzone pop, con due brani diversi. Era la prima volta che questo accadeva. Fu in qualche modo la conferma che i Manhattan Transfer non si potevano incasellare in un singolo genere musicale?

Ci risponde Janis Siegel: «Ne fummo estremamente felici, perché fu certamente un passo importante nella direzione dell’abbattimento delle categorie musicali».

Nonostante voi, singolarmente, non siate newyorkesi, come band siete considerati una delle più vere rappresentazioni di New York. Ne sentite la responsabilità?

«È vero che non siamo originari della Grande Mela, ma ci siamo incontrati là nel 1972, e possiamo dire che la storia del nostro incontro è davvero una “Fairytale of New York” (usa il titolo del romanzo dello scrittore irlandese James Patrick Donleavy e della canzone natalizia dei Pogues a esso ispirata, che vanta decine di cover, ndr). Ormai ci considerano stilisticamente newyorkesi, penso a causa dell’immagine elegante e sofisticata che abbiamo avuto fin dagli esordi».

Nel 2009 avete inciso un intero album dedicato a Chick Corea, che sarà a “Ravenna jazz” pochi giorni dopo di voi, ma quali sono i tributi ai quali siete più legati, tra i tanti che avete fatto?

«Certamente l’album “Vocalese”, dedicato al genio di Jon Hendricks, ma io amo anche “Body & soul”, che omaggia un altro padre del vocalese: Eddie Jefferson. Per quanto riguarda “Chick Corea songbook”, amo in particolare l’arrangiamento di “Pixieland rag”, che ha fatto Alan Paul, e la nostra versione del brano classico “Spain”».

Avete appena pubblicato “The junction”: immaginiamo sia stato difficile registrarlo senza Tim Hauser.

«Oltre che difficile è stata una sensazione straniante. Tim è stato fondatore e produttore del gruppo, ma soprattutto un amico, però la vita va avanti, e abbiamo pensato che i tempi fossero maturi per far entrare a pieno titolo in formazione Trist Curless, che sostituiva Tim dal vivo già da tre anni».

Ci può presentare il disco?

«Come dicevo è il primo con Trist, che canta e ha scritto il brano del titolo; è il primo registrato in studio dai tempi di “Chick Corea songbook”, ed è prodotto e arrangiato dal nostro amico Mervyn Warren, leader dei Take 6. Penso che sia molto vicino al nostro disco del 1991 “The offbeat of avenues”, perché abbiamo scritto tutto il materiale, e perché ci sono molti sapori, dall’armonizzazione vocale del rap in stile jazz classico (“Cantaloop – flip out”), a una cover degli Xtc (“The man who sailed around his soul”) e a una scatenata traccia dance (“Shake ya boogie”)».

Sul palco sarete con un trio di musicisti: come sarà il concerto?

«Certamente faremo qualche pezzo da “The junction”, ma il nostro sterminato repertorio ci consente di giostrare tra gli stili e le epoche. Ci concederemo anche qualche assolo».

Biglietti 18-30 euro. Per i “Ravenna jazz aperitifs”, alle 18.30 al Fellini, assolo all’organo Hammond di Sam Paglia. Ingresso gratuito. www.crossorads-it.org

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