«Dalla riflessione sulla morte viene l’intensità per attraversare la vita terrena»

Rimini

CESENA. Debutta venerdì 11 e sabato 12 maggio alle 21, al teatro Bonci di Cesena, il nuovo lavoro del Teatro Valdoca, il dittico “Non se ne vadano docili in quella buona notte”, regia e allestimento scenico di Cesare Ronconi, testi di Mariangela Gualtieri.

Il progetto fa parte del “Disgelo dei nomi” voluto dal direttore di Ert Claudio Longhi. In forma più corposa di trittico, con l’inserimento di “Giuramenti” (a Cesena applaudito un anno fa), questo nuovo progetto Valdoca sarà a Napoli dall’8 al 10 giugno, su invito di “Napoli teatro festival”.

“Introito” di Enrico Malatesta

La prima parte del dittico è “Introito”, concerto sonoro ideato dal percussionista Enrico Malatesta con Attila Faravelli, due musicisti dediti alla ricerca dei suoni.

«Entrambi hanno già lavorato con noi – dice Cesare Ronconi –; il loro è un suono materico, ambientale, manipolato. In “Introito” producono sonorità in tempo reale mentre Mariangela “muta” si muove di spalle al pubblico, ripresa da un banco ottico e proiettata su uno schermo».

“Parlamento” di Gualtieri

Nella seconda, “Parlamento”, è protagonista Mariangela Gualtieri che interpreta il suo scritto originale accompagnata da musiche di Silvia Colasanti eseguite dal violoncellista Stefano Aiolli.

«Potremmo definire questo dittico come un’operetta da camera popolare – aggiunge il regista –, che possiede domande forti, formalmente interessante. La platea sarà coperta da teli, il pubblico occupa i soli palchi, i musicisti stanno in platea, Mariangela sul palco parzialmente chiuso. È un testo sulla fine delle cose, intese come cambiamento».

La scrittura di “Parlamento” è di fatto un “requiem”; l’autrice lo presentò un anno fa al Festival di Spoleto.

Mariangela, Il tema dei morti sembra ritornare nella sua scrittura recente; nell’ultimo “Ciò che ci rende umani” presentaste una serie fotografica con volti di morti e voci. Qui scrive un dialogo fra morti e vivi interroganti. Cosa la spinge al dialogare con la dama nera?

«Questo avvertire la presenza dei morti – risponde la protagonista – è cosa che mi accompagna fin dalla prima infanzia. La vecchia casa di via Albertini nella quale sono nata (nel centro storico di Cesena), con i suoi angoli bui, le luci basse di allora, mi sembrava popolata di morti. E fin dall’infanzia, chissà perché, sapevo di provenire da altrove, sapevo che sarei tornata in quell’altrove. Questa credo sia la radice della mia religiosità, una religiosità senza culti ma con le sue irrazionali certezze».

Il titolo “Non se ne vadano docili in quella buona notte” cita il poeta gallese Dylan Thomas (1914- 1953), perché proprio lui?

«È sempre vivo in me anche il dialogo con i poeti del passato, che sono forse la parte più consistente e viva di coloro che posso chiamare “i miei morti”. Dylan Thomas è uno dei poeti che prediligo e che frequento con assiduità. Mi ha entusiasmata l’idea di una indocilità rispetto al requiem aeternam, all’eterno riposo e, cosa che faccio spesso, ho rubato questo suo verso».

Le musiche originali le ha richieste a Silvia Colasanti, a Stefano Aiolli ha affidato l’esecuzione al violoncello, come sono nati questi incontri e quali suoni disegnano?

«A Spoleto con Aiolli ho eseguito il duetto iniziale, il suo entusiasmo, le sue doti ed elasticità, mi hanno fatto capire che fosse la persona giusta. Il violoncello, per Cesare Ronconi – d’accordo con Silvia Colasanti – è lo strumento che meglio poteva accompagnarmi nelle parti che invece a Spoleto erano eseguite da un’orchestra. Silvia ha trascritto per noi le nuove parti del cello. La sua musica tiene insieme passato e presente con potenza e delicatezza, ha grande rispetto e amore per la poesia. Versi e musica sono infatti nati insieme».

In “Introito” la si vedrà in un modo insolito, silente, immersa fra suoni più astratti. Come si inserisce dentro a quel contesto particolare?

«La mia presenza sarà in proiezione, secondo una tecnica di ripresa al presente messa a punto da Cesare in questi mesi. È una tecnica straordinaria che carica l’immagine di ombra, ridà all’immagine quell’aura di presenza, quell’aura di mistero che solo a volte riusciamo a cogliere nei volti. Farò una cosa che alla mia età non si fa volentieri: mostrerò la mia faccia, in un piccolo susseguirsi di azioni, in tutta la sua nudità e disarmo».

Alcune frasi sono in latino, servono a rafforzare il senso del requiem?

«Tutto il mio testo in versi dialoga col testo latino, nasce in risposta alle affermazioni del testo latino che di suo ha la bellezza del suono, e nel canto sembra una formula magica, ma nei significati non sempre è condivisibile. I miei versi dialogano col latino e lo contraddicono, soprattutto lì dove emerge l’immagine di un Dio severo, punitore, giudice o, come dicevo, lì dove il latino propone la morte come riposo eterno, idea che a dir poco mi atterrisce».

Cosa vorrebbe lasciasse, questo requiem, in chi lo ascolterà?

«Tutto ci spinge a fingere che la morte non esista, la morte come fine del corpo e dell’io intendo. Io credo che dalla riflessione sulla morte nasca la migliore intensità e disposizione per attraversare questo tratto di vita terrena. Vorrei che lasciassimo, in chi ascolta, un più vivo desiderio di pienezza».

Euro 12-8. Info: 0547 355959

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