Se la virtù assume il diletto come un’arte verso la “perfezione cristiana”

Rimini

RIMINI. L’editore riminese Panozzo pubblica un particolare, prezioso libro dedicato a un importante intellettuale del Seicento italiano: Sapienza gesuitica e mondo moderno. Sforza Pallavicino intellettuale di frontiera (Rimini, 2018, pp. 108, euro 12).

L’autore, Massimiliano Filippini, è stato preside di un istituto superiore di Rimini, è stato assessore comunale, ma soprattutto proviene da quella “officina” letteraria che aveva come maestro un grande italianista dell’Università di Bologna, il compianto Ezio Raimondi.

Dalla lontana e brillante tesi di laurea prende l’avvio una ricerca originale sull’opera di un pensatore – Pietro Sforza Pallavicino (Roma, 28 novembre 1607 – Roma, 5 giugno 1667) sospeso sul crinale che dal Seicento porta al secolo dei Lumi. Un cardinale, un gesuita, che nelle sue opere raccoglie e rinvigorisce il sofferto pensiero cattolico uscito dal Concilio di Trento per darne una lettura aperta, dialettica, con l’occhio rivolto al pensiero scientifico, vicino a Galileo anche nella fase della condanna ecclesiastica.

Filippini, con accortezza, porta in evidenza la trama del pensiero del Pallavicino utilizzando prima di tutto la lettura di Del bene, un dialogo di filosofia morale del 1646 nel quale si discute di come conoscere il “bene”, amabilmente immersi in un’atmosfera che potremmo già definire “arcadica”. Il piacere del cibo, il paesaggio lacustre, l’amicizia che lega i protagonisti, tutto ciò, suggerisce una riflessione profonda sul rapporto fra il bene e il piacere. Problema che si pone per ragioni morali ma anche per comunicare, per trasmettere. Questione centrale, questa, nella strategia missionaria elaborata dai Gesuiti.

Scrive Filippini che in Del bene «è possibile cogliere l’eco della crisi culturale prodotta dai grandi rivolgimenti politici e scientifici del tempo e la ricerca di una via d’uscita per rifondare l’etica personale e collettiva».

Da ciò l’attenzione del Pallavicino (e della Compagnia di Gesù) per i percorsi di apprendimento: la “prima apprensione” con cui la poesia parla alla mente, il metodo induttivo nel rapporto con il reale, il legame indissolubile fra felicità e virtù. Ed anche l’impegno importante della Compagnia per l’apprendimento e la didattica, praticate nelle scuole dell’Ordine diffuse nel mondo. Dentro questa ricerca si collocano poi esperienze particolari dei Gesuiti in terra di missione, come le Reducciones dell’America Latina, esperienze di villaggi indios basate sull’autonomia e sul comunismo dei beni. Avversate dai colonizzatori e distrutte, non senza brutalità, dai re cattolici di Spagna e Portogallo.

Dalla trama del dialogo emerge poi il tema della “verità”, con un approccio che possiamo collegare al relativismo che già percorre la cultura europea fino a chiedersi: «Qual pietra di paragone potrà mai distinguere i beni veri dai falsi?».

Come non ricordare la frase di Bergoglio, anch’egli gesuita, nel corso della visita apostolica in Brasile: «Chi sono io per giudicare un omosessuale?».

Nella seconda parte del volume di Filippini si affronta la lettura dell’ultima opera del Pallavicino, L’arte della perfezione cristiana (1665). Partendo dal bisogno continuo di “diletto” dell’uomo «a fine di non rimanere digiuno di questo suo cibo di cui sempre ha fame… fabbrica a sé il diletto con l’immaginazione o con la speranza». Attraverso il “diletto” si può raggiungere il bene. A ben vedere si tratta di un approccio “di frontiera” perché propone un percorso verso la virtù che non esclude la dimensione “mondana” del vivere, al contrario la assume come un’arte, appunto, un terreno fertile per raggiungere la “perfezione cristiana”.

Il cammino verso la virtù, o come ameranno chiamarla, verso l’armonia del mondo, troverà nuova attenzione nel sensismo, quasi cento anni dopo, in una forma più “laica” nella quale è centrale il rapporto con la natura, come può ben apparire da questo brano del riminese Aurelio Bertola: «Quest’armonia fra gli esseri intelligenti e i fisici è pur cercata avidamente dal nostro animo… viene rimuovendo da noi gli eccessi dell’amore di noi medesimi… onde siamo condotti alla universale benevolenza» (Viaggio sul Reno, lettera XXXVII, Luisè Editore, 1998).

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