«Film? Non ho tempo, il teatro chiama»

Rimini

FORLÌ. Preceduto da una lunga tournée che ha riscosso in tutta Italia successo e consensi unanimi, arriva al Diego Fabbri da giovedì 13 a domenica 16 marzo Oscura immensità, spettacolo coprodotto da Teatro Stabile del Veneto e Accademia Perduta/Romagna Teatri che Massimo Carlotto ha tratto dal suo romanzo L’oscura immensità della morte, interpretato da Claudio Casadio e Giulio Scarpati con la regia di Alessandro Gassmann. Nella pièce il faentino Casadio interpreta Raffaello Beggiato, personaggio molto intenso di assassino in carcere che deve fare i conti con la propria coscienza, la propria vita e, soprattutto, con la vittima del suo delitto. Di questo e molto altro ci parla lo stesso Claudio Casadio.

Un personaggio certo non facile, come ci ha lavorato?

«Devo ringraziare Gassmann che, essendo anche attore, me lo ha impostato con tutte le forze e le energie giuste; volevamo che da questo balordo uscissero anche una parte umana e il pentimento, pur lasciandolo un balordo. Non l’abbiamo sviscerato tantissimo, siamo andati molto a istinto, partendo dalla sua fisicità e dalla sua rabbia. Ne è uscito un personaggio vero. La presenza scenica è molto importante in Raffaello – la sua rabbia, i momenti di malinconia e disperazione –, lui è pieno di sfaccettature, e soprattutto cambia spesso in modo molto rapido, durante i monologhi. Si voleva dare l’idea di un flusso di pensieri aggrovigliati e cangianti repentinamente. Quindi abbiamo giocato sulla rapidità dei cambi di umore e di tono della mia voce. Addirittura qualcuno mi ha chiesto se facevo parte della Compagnia della Fortezza, che lavora con i carcerati. Questo significa che siamo riusciti davvero a rendere l’idea che il personaggio forse un carcerato».

Il sodalizio con Massimo Carlotto ha funzionato benissimo, tanto che ora ha scritto un testo per lei. Di cosa si tratta?

«Sì, a Massimo sono piaciuti il mio modo di recitare e il mio essere romagnolo, e ora ha scritto per me una commedia, Il mondo non mi deve nulla, che dovrebbe debuttare a dicembre, ambientata a Rimini, da cui ha poi tratto anche un racconto che uscirà tra pochi giorni. Qui il testo è giustamente molto diverso da Oscura immensità e parla di un operaio di Rimini che, licenziato, inizia a rubare e in un appartamento incontra una signora tedesca, molto bella. Sono molto felice che un autore veneto scriva per un attore romagnolo, pensando alla Romagna, mi piace l’idea che esca un teatro contemporaneo con richiami romagnoli in chiave poetica. Ho sempre scelto progetti che sentivo miei, come questo. Quando leggi un testo e senti che ti appartiene, come attore sei già un passo avanti».

Nel 2009 un esordio cinematografico di grande impatto in L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, poi una parte in Romanzo di una strage di Giordana. La rivedremo sul grande schermo?

«Il teatro non combacia molto bene col cinema, che ha altri tempi e soprattutto implica tanti spostamenti. Per il momento ho lasciato tutto in sospeso. C’era in ballo un terzo progetto cinematografico che mi piaceva e che doveva partire nell’aprile scorso, ma è poi slittato a dicembre, quando già era partita la tournée di Oscura immensità. A quel punto non potevo né volevo assolutamente lasciare il teatro per fare il film. Dunque, siccome ora lavoro molto in teatro, non faccio nemmeno audizioni, perché non ho il tempo. Il teatro è un lavoro molto serio che ti assorbe e richiede tempo».

La situazione della cultura italiana, e del teatro in particolare, sembra sempre più soccombere alla mancanza di fondi. Ci sarà un’inversione di tendenza?

«Da tempo sto riflettendo molto su questa questione. La mancanza di fondi c’è sempre stata e oltretutto i fondi che ci sono spesso sono distribuiti anche male. Vengono sovvenzionati soggetti e strutture che magari oggi non rappresentano più molto nel teatro italiano, mentre per le realtà nuove non ci sono fondi, occorrerebbe un riequilibrio delle risorse esistenti. La crisi si sente maggiormente, forse, dove comunque si è lavorato anche male, non pensando al pubblico, magari dando direzioni artistiche a manager che hanno probabilmente pensato ad altro che non a costruire un pubblico. Perché per farlo occorre sensibilità, cura e grande rispetto verso di esso. Al giorno d’oggi andare a teatro implica comunque un impegno su più livelli – tempo, spostamenti, denaro – e lo sforzo deve essere compensato. Bisogna tornare a fare un teatro appagante, che stimoli, che emozioni. Il pubblico non vuole solo ridere o distrarsi, va a teatro per trovare quello che cerca: emozioni, pensieri, riflessioni, attori che sanno far vibrare. Rimane però il fatto che se i soldi devono servire per tappare i buchi che fanno i grandi teatri o gli enti lirici, se i fondi devono solo salvare e mai costruire, non c’è soluzione».

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