«Fare l’attore è sudore e fatica ma vado a dormire felice»

Rimini

RIMINI. Di una gentilezza fuori dal comune, giovane ma con un bagaglio teatrale alle spalle non indifferente. Riminese di nascita (zona stadio), questo è Massimo Nicolini, classe 1981, attore impegnato che sta girando l’Italia con Van Gogh. L’odore assordante del bianco per la regia di Alessandro Maggi. Affiancando un ipnotico Alessandro Preziosi nelle vesti del pittore olandese, Nicolini presta anima e corpo a Theo, il fratello di Van Gogh. Lo spettacolo è un thriller psicologico in cui emerge il viscerale rapporto tra un pittore imprigionato nel vuoto, l’assordante del bianco di un manicomio in cui gli è vietato dipingere, e un fratello pronto a nutrirlo della speranza di uscire da quella gabbia che lo imprigiona.

Vincitore del Premio Tondelli a Riccione Teatro nel 2005, il testo risulta essere un disperato dialogo tra emozioni, ricordi e allucinazioni che si intersecano nella concretezza spietata di medico, infermieri e direttore del manicomio. Ne abbiamo parlato con Massimo Nicolini.

Nicolini, perché ha accettato di fare “Van Gogh”?

«Posso dire che Van Gogh è un personaggio che mi gira intorno da tempo e finalmente è arrivato. Il rapporto tra Vincent e Theo lo conoscevo abbastanza bene perché per conto mio avevo già iniziato a documentarmi. Quando poi è arrivata la possibilità di poter accedere ai provini per questo spettacolo con il regista e Alessandro Preziosi, sono stato ben felice di buttarmi a capofitto in quest’avventura. Fortunatamente è andato tutto bene».

Interpreta un intenso Theo, fratello del pittore. Come si è preparato?

«Esiste una fitta rete di corrispondenza tra i due fratelli, anche se le lettere scritte dal pittore sono nettamente di più rispetto a quelle di Theo, circa 400 su 40. Grazie a questo rapporto epistolare, ho avuto modo di riuscire a delineare il mio personaggio, anche se ci vuole sempre una certa cautela perché portiamo in scena uomini realmente esistiti. Ho fatto un’attenta analisi del testo teatrale che mi è stato dato, in modo tale da far emergere tutte le informazioni di cui necessitavo. Quella che porto in scena è una commistione tra il Theo che fuoriesce dalle lettere e il Theo che mi è stato presentato nel testo teatrale. La vita di Vincent non è stata per nulla semplice e altrettanto si può dire per il fratello; l’artefice della fortuna di Vincent non è stato di fatto Theo, bensì la moglie di quest’ultimo».

Nella pièce, Van Gogh dialoga tra realtà e immaginazione proprio con suo fratello a cui chiede disperatamente di uscire dal manicomio. Theo, nonostante Vincent morirà suicida, può essere considerato una sorta di sogno salvifico per il fratello?

«Assolutamente sì. Avere avuto un fratello come Vincent non deve essere stato semplice, e probabilmente Theo ha toccato con mano la luce e i coni d’ombra del fratello; c’era tuttavia un filo d’affetto fortissimo tra i due fratelli, un vero e proprio intreccio di anime. Nello spettacolo, abbiamo cercato di cogliere ogni possibile sfumatura del viscerale legame che li univa».

«Prima sogno i miei dipinti, poi dipingo i miei sogni» sosteneva Van Gogh. Esiste un confine tra sogno e realtà?

«Non credo a una netta separazione tra i due, esattamente come non sento vicina la divisione tra quello che è tangibile e quello che non lo è. È un intersecarsi, mescolarsi e unirsi meravigliosamente».

Ma possiamo ancora sognare oggi?

«Oggi come oggi, non abbiamo soltanto il diritto di sognare, ma anche il dovere di farlo. La mia generazione, ovvero quella tra i 30 e i 40, è cresciuta in un’Italia abbastanza benestante, costituita da valori, in cui non c’erano particolari problemi. Gli anni che stiamo vivendo, invece, sono costellati da una totale mancanza di punti di riferimento e strumenti sui quali fare affidamento per affrontare la realtà che ci circonda; ecco che è facile lasciarsi abbattere e non credere più nelle proprie capacità. In momenti come questo, è necessario rimboccarsi le maniche per uscire dal tunnel che sembra non voglia mostrarci la luce. Sono convinto che ce la faremo, come ieri».

Nello spettacolo affianca Preziosi che veste anima e corpo un tormentato Van Gogh.

«È una bellissima sfida. Non lo conoscevo così bene come attore ma sono ben contento di dividere il palco con lui anche per la forte intesa che è nata lavorando insieme. È un vero e proprio interprete che conosce i codici teatrali alla perfezione. Ho trovato sul palcoscenico un attore, nel senso totale del termine».

Chi è Massimo Nicolini oggi?

«Sono un attore. Nonostante faccia questo mestiere da oltre dieci anni, ho scoperto recentemente che il mio lavoro in realtà mi identifica. È bellissimo impiegare tutte le proprie energie per un lavoro che si ama; il sudore e la fatica passano in secondo piano se si può andare a dormire felici. Fare l’attore in un Paese come il nostro in questo momento storico presuppone una scelta per forza di cose, è un mestiere meraviglioso ma estremamente complesso. Se si comprende che è quella la strada che si deve percorrere, non si può fare a meno di seguirla, nonostante ci possano essere ostacoli e curve molto impervie da affrontare».

Nonostante la sua giovane età, ha alle spalle molti ruoli teatrali, soprattutto nei classici greci. Cosa rappresenta per lei il teatro?

«Ero proiettato nello sport, nella pallacanestro in particolare con il Basket Rimini, fino ai 20 anni. Il teatro è un amore arrivato per caso; ci siamo conosciuti e ci siamo piaciuti, mi sono innamorato in maniera folgorante; questo amore è diventato convivenza che si è poi trasformata in sofferenza. La separazione è durata ben poco perché questa passione dello stare su un palco è tornata prepotentemente a invadere la mia vita. Ho avuto la fortuna di lavorare per 4 anni nel teatro di Siracusa, avendo al possibilità di cimentarmi in personaggi a dir poco straordinari. Forse per il luogo, forse per il testo, per il tema che si stava trattando, forse per l’energia che si crea in quel luogo magico, sono stato trapassato da emozioni fortissime instaurando un dialogo emotivo con il pubblico fortissimo. È una sensazione di impagabile libertà».

Per lavoro è spesso in giro per l’Italia ma le sue radici sono a Rimini. Cosa porta con sé di questa città e cosa invece lascia?

«Porto con me un’ampolla con la sabbia del mare di casa mia sempre in macchina. Sono scappato da Rimini da giovanissimo perché la sentivo molto provinciale e chiusa in se stessa, ma poi sono tornato perché dentro a questa provincialità ho scoperto la mia forza che di fatto sono le mie radici e la bellezza di una città a dir poco meravigliosa. Sono spesso in viaggio ma Rimini è sempre con me».

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