Il rapper cantautore: «È arrivato il momento di dire basta»

Cesena

C’è chi lo definisce, per i suoi testi, più un cantautore che un rapper. Lo si evince dall’ascolto dei primi due dischi, “Manuale del giovane nichilista” e “Non è il mio genere, il genere umano”. Ma è con il terzo, “Educazione sabauda”, che la sua opera si perfeziona. Mai convenzionale, ma ironico e irriverente, Willie Peyote, nome d’arte di Guglielmo Bruno, si discosta dallo stereotipo hip hop riuscendo a conquistare anche le platee più difficili.

Il 6 ottobre scorso è uscito “Sindrome di Toret”, il nuovo disco di inediti che presenterà stasera a Cesena, al teatro Verdi. Nella prima settimana “Sindrome di Tôret” è entrato direttamente all’ottavo posto della classifica dei dischi più venduti in Italia. I temi sono di forte attualità, primo fra tutti quello della libertà d’espressione e dei suoi limiti, in un’epoca in cui la comunicazione è cambiata profondamente a causa della tecnologia. Di questo e molto altro abbiamo parlato con lui, che sarà tra l’altro al Concerto del Primo Maggio di Roma.

All’inizio di ottobre 2017 è uscito “Sindrome di Toret”. Che cosa significa?

«È un disturbo neurologico che ha come effetto un comportamento compulsivo; vengono dette costantemente parole poco cortesi ed educate. Il nome del nuovo disco è nato proprio pensando a questa sindrome per raccontare una mal gestione della libertà. Molto spesso parliamo eccessivamente e male; dovremmo invece imparare a trattenerci per ridare significato alle parole. Il titolo è anche un chiaro riferimento alle fontane, “toret” (piccolo toro) in dialetto torinese, perché queste “sorgenti artificiali” altro non fanno che sputare continuamente acqua».

Nel suo nuovo disco affronta un tema molto delicato, ovvero quello della libertà. Cos’è per lei?

«Ognuno ha il suo personale concetto di libertà. Per me, vuol dire non aver paura dei propri limiti e neanche di quelli altrui. La libertà d’espressione è la possibilità di avere la speranza di essere ascoltati seriamente. Oggi, questo ascolto manca; siamo sempre più soli; è solamente una gara a chi parla di più».

Nel testo della canzone dice: «Devo imparare a dire no». A cosa dovremmo dire no?

«Dovremmo dire no a tutto quello in cui non crediamo davvero e a tutti coloro che non ci rendono felici. Troppo spesso infatti diciamo sì per far piacere agli altri; ecco è arrivato il momento di dire basta».

Guglielmo Bruno, questo il suo nome vero. Perché proprio Willie Peyote?

«Tutto è nato in maniera molto curiosa. Il mio nome reale non avrebbe funzionato nel mondo della musica. Willie da Guglielmo e Peyote dal nome del cactus messicano allucinogeno».

Come e quando si è avvicinato alla musica?

In famiglia suonavano tutti, a cominciare da mio padre che era un batterista e da mia madre che per diletto suonava il pianoforte. Sono cresciuto in un ambiente artistico molto vivo e ho sempre saputo, sin dalla tenera età, che avrei voluto fare questo nella vita».

Victor Hugo affermava che ciò che non si può dire e ciò che non si può tacere, la musica lo esprime. Anche per lei è così?

«Sono più che d’accordo. La musica, come l’arte in generale, riesce a parlare meglio di chiunque altro. Le parole in musica possono anche essere una vera e propria denuncia, nel senso che possono mettere in luce aspetti della società che molto spesso non vengono analizzati. L’arte non deve insegnare, ma soltanto permettere di porsi costantemente delle domande, poi ognuno si darà delle risposte».

La sua musica è un formidabile mix tra rap e cantautorato. Qual è la situazione musicale oggi in Italia?

«Il rap di per sé non è un vero e proprio genere musicale, ma piuttosto una formula stilistica del canto; il cantautorato è un modo di porsi nei confronti della musica, non esiste più quello di una volta. Io sono cresciuto con un mix di generi, da Fabrizio De André a Fabri Fibra, da Lucio Battisti ed Enzo Iannacci a Notorius. Come ora l’impegno politico è affidato alla Lega e al Movimento 5 Stelle, anche il panorama musicale sta cambiando e non sempre in meglio».

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