Terrore e nichilismo spiegati da un ebreo che non crede al Messia

Rimini

RAVENNA. La biografia di Wlodek Goldkorn riassume in modo impressionante le contraddizioni del Novecento: ebreo di famiglia comunista, nasce in Polonia nel 1952. L’antisemitismo comunista costringe i Goldkorn a espatriare in Israele; ma, dopo qualche peregrinazione in Europa, Wlodek decide di trasferirsi «nel Paese più bello del mondo», l’Italia. La sua scelta “estetica” lo porterà a diventare il responsabile culturale dell ’Espresso e a pubblicare svariati libri sull’Europa orientale e sull’ebraismo, fino all’uscita, nel 2016, di un fortunato romanzo autobiografico per Feltrinelli, “Il bambino nella neve”.

Oggi alle 16 Goldkorn sarà ospite, con Marco Belpoliti e Tahar Lamri, di un incontro all’interno dei Parlamenti di aprile, seminari fra teatro e filosofia organizzati dal Teatro delle Albe. Ne abbiamo parlato c on l'intellettuale naturalizzato fiorentino.

Goldkorn, leggendo la sua biografia si nota che ha pubblicato un libro con Longo, editore ravennate: gli atti del convegno “Civiltà dell'Europa Orientale e del Mediterraneo”. Questo è già un legame con Ravenna.

«Sì, è vero. Ma io sono molto legato alla Romagna in generale, perché mi piace e perché è un luogo di teatri».

Appunto: proprio al teatro Rasi parlerà di “Immagini e parole del contemporaneo”. Ci può anticipare qualche tema?

«Immagino che si partirà dal libro di Belpoliti sui kamikaze islamici, “Chi sono i terroristi suicidi?”. Parleremo di che cosa è oggi il terrorismo, in particolare del suo lato nichilistico».

Che cosa intende?

«L’Occidente ha sempre avuto bisogno di vedersi attraverso uno specchio deformato. Oggi il terrorismo islamista è diventato uno specchio dei nostri disvalori, del nostro disprezzo delle vite, del nostro fascino per la morte e per il suicidio per la causa. In modo distorto, è come se il suicidio restituisse l’innocenza al terrorista. Questo è sempre stato un elemento molto forte nel nichilismo. Non credo allo scontro delle civiltà».

Intende dire che il fanatismo islamista è un fenomeno che potrebbe ricondursi a una radice occidentale?

«Non occidentale, ma a una radice moderna. L’ideologia di sacrificarsi per una causa che è più grande della tua vita, che annulla il tuo corpo e quello degli altri, è moderna. In questo senso il purismo è nichilista: quando si vuole purificare tutta l’umanità attraverso la violenza; quando si rifiuta l’evidenza che la vita è sporca, piena di contraddizioni e compromessi, si ha il terrorismo. Perciò non trovo giusta la distinzione fra “loro” terroristi e “noi” Occidente. Noi abbiamo prodotto il nichilismo nella sua forma più radicale: il nazismo».

Ha scritto che «la memoria va strumentalizzata, quando è il caso, ma in maniera giusta». Non crede che questo possa essere un pericolo? In altre parole: a che giova paragonare i barconi del Mediterraneo alle camere a gas?

«La memoria della Shoah va strumentalizzata politicamente perché è strumentalizzata già di fatto. Ho scritto questa frase per incoraggiare a dire cose estreme. Se la memoria non viene usata, se la cristallizziamo solo per piangere, serve a poco. Per me la memoria è politica. Io non dico che i barconi sono delle camere a gas: sto piuttosto paragonando la nostra indifferenza a quella delle persone durante l'Olocausto. Sono morti 6 milioni di ebrei anche per l’indifferenza di chi non ha fatto nulla. Io non voglio che fra trent’anni qualcuno dica che mentre i migranti annegavano, noi rimanevamo indifferenti. Il che non vuol dire che dobbiamo accoglierli tutti. Ma dobbiamo salvarli tutti».

Alla fine del suo libro per Feltrinelli scrive: «Ammesso che il Messia verrà, la sua venuta sarà irrilevante. Eppure dobbiamo fare come se lo aspettassimo». Cosa intende dire?

«È molto semplice. Io non credo che il Messia verrà. Né credo nella redenzione. Ma non credere non significa rinunciare a un preciso dovere etico: quello di comportarsi in modo tale che il bene si affermi nel mondo. Gli argomenti dei nichilisti sono convincenti: per un ebreo non credente come me, è assurdo pensare alla venuta del Messia. Ma devo comportarmi come se lo aspettassi. Devo cercare di non fare il male; o, se mi riesce, di fare il bene».

Lei ha detto di aver scelto di vivere in Italia per ragioni estetiche. Da allora ha mai avuto l'impressione di aver commesso un errore?

«No. Sono arrivato qui nella seconda metà degli anni ’70. Ovviamente c’è stato un imbruttimento dell’Italia, ma ciò non è dovuto al carattere degli italiani. È scomparso quasi del tutto quel tessuto che faceva l’Italia bellissima, quello degli artigiani nelle città. La bellezza monumentale, museale, naturale è fantastica e sconvolgente. Ma quella che mi manca, oggi, è la bellezza quotidiana degli artigiani dei centri cittadini: il falegname che aveva ancora negli occhi i pittori e gli scultori rinascimentali. Tutto questo è scomparso con la globalizzazione, ma non c’entrano gli italiani. Sono ferocemente contrario ai discorsi delle élite che parlano di una deriva antropologica degli italiani».

Che cosa intende?

«Se oggi stiamo vivendo un’ondata di xenofobia e razzismo, non è certo perché gli italiani sono xenofobi. Non lo sono affatto. Quell’ondata deriva dal disarmo totale delle élite illuminate, dalla loro incapacità di spiegare che l’altro è esattamente come noi».

Info: 0544 36239

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