Il velo tra discriminazione e moda: «Ma fa parte della storia dell’Occidente»

Rimini

RIMINI. Dalla morigerata vergine Maria a santa Caterina, la storia del Cristianesimo è piena di donne con il capo coperto. Anche se è pur vero che il precetto di coprirsi il capo in segno di modestia e umiltà è molto meno rispettato nell’iconografia, dove sante e beate sono spesso rappresentate con i capelli sciolti o legati, ma comunque ben visibili (un esempio per tutti: La vergine delle rocce di Leonardo).

Ispiratosi forse alle Vestali romane, nella Prima lettera di san Paolo ai Corinzi, si legge: «Di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli!».

E basta entrare in una qualsiasi chiesa ortodossa per rendersi conto che l’usanza femminile di coprirsi il capo in segno di rispetto è tutt’altro che scomparsa.

Donne sposate, vedove, religiose, tutte coperte. Eppure, quando si parla di velo, il nostro primo pensiero va allo hijab o agli altri tipi di copertura in uso nel mondo islamico. Ma «la tradizione del velo non deriva dal Corano e non è specificamente legata all’Islam. Gli arabi avrebbero mutuato questa pratica da altri popoli durante la fase espansiva quando entrarono in contatto con ambienti nei quali le donne appartenenti alle classi medio-alte usavano coprirsi il capo».

Maria Giuseppina Muzzarelli – docente di Storia medievale, Storia delle città e Storia del costume e della moda all’Università di Bologna – ha voluto raccontare le vicende del velo in Occidente nel suo ultimo libro A capo coperto (Il Mulino), ricostruendo come, attraverso i secoli, le donne siano riuscite a trasformare un’imposizione in un accessorio di moda, dando un significato estetico a quel che rappresentava una discriminazione di genere.

Lo presenterà venerdì 23 marzo alle 17.30 alla Biblioteca Gambalunga (sala della Cineteca) nell’ambito del ciclo Parla con lei. Sapienza contro violenza.

Muzzarelli, in Occidente spesso ci si divide fra la “colpevolizzazione” del velo e il relativismo culturale con il quale si accetta passivamente quella che è a tutti gli effetti una discriminazione. Nel suo libro lei cerca una terza via?

«Quel che ho cercato di fare è ricostruire il rapporto del mondo occidentale con il velo. Una storia piena di contraddizioni e paradossi».

Quali, ad esempio?

«Intanto si dice velo – che in sé è un oggetto trasparente, leggero, un accessorio di bellezza – per intendere copertura del capo. Un altro paradosso è che noi adesso consideriamo il velo come una specie di icona del mondo islamico, che è tradizionalmente un mondo in cui si è lottato contro le immagini. In realtà il velo è legato anche alla nostra storia. È un oggetto pieno di contraddizioni e di elementi significativi, alcuni legati al concetto di modestia e sudditanza, altri semplicemente alla tradizione».

E cosa ne è emerso?

«La copertura del capo fa parte della tradizione mediterranea e quindi, quando il Cristianesimo lo ha imposto, non ha fatto altro che avvalersi di qualcosa che era già in uso per farsi pubblicità, attribuendo al velo un significato esplicito in più, quello di modestia e sudditanza. Le donne dovevano essere coperte per limitare la loro bellezza e capacità di attrazione, per alleggerire gli uomini dal compito di resistere alla tentazione».

La Bibbia è anche più netta del Corano sul tema.

«L’obbligo del velo è più marcato nell’interpretazione dei padri della Chiesa, da san Paolo a Tertulliano, mentre nel Corano in realtà ci sono solo due passi che ne parlano».

Il velo può essere in alcuni casi un elemento di emancipazione?

«Sì, c’è un altro aspetto da considerare: molti di questi copricapo, nella storia, sono frutto di lavoro femminile, un lavoro che fa guadagnare alle donne fama e denaro».

Da elemento di oppressione a dettaglio di moda?

«Questo oggetto che si presenta sulla scena del mondo cristiano con questi attributi – modestia, subordinazione – in realtà nel corso dei secoli è stato un po’ addolcito. Le donne lo hanno utilizzato per mettersi in testa di tutto fuorché elementi legati alla modestia. La mia nonna non portava il velo per devozione ma per tradizione, poi l’uso è decaduto perché la moda lo ha fatto decadere. Ma alle sfilate 2017-2018 si sono viste modelle con foulard come usava una volta».

Ma non rimane pur sempre un’espressione di discriminazione?

«C’è stato, in questo senso, un disegno nel mondo cristiano, ma è stato acquisito e, nella prassi quotidiana, anche ribaltato. Anche nel mondo islamico indossare il velo a volte è una decisione condivisa dalle donne. Ci siamo un po’ impuntati sul tema del velo che è appesantito da moltissimi significati. Però quando indossarlo è una libera scelta, e se non foriero di altre e ben più gravi limitazioni, non lo trovo un gran problema in sé. Non è un elemento che deve generare inquietudine in Occidente. Se nella prassi le donne sono marginalizzate e il velo rappresenta questa sottomissione, il problema non è nel velo, ma nella cultura, nell’area geografica, nell’ambiente. Negli ultimi anni c’è stato un po’ un cortocircuito, una equivalenza: velo uguale mondo islamico, velo uguale subordinazione. Ma non è sempre così».

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