Il "Pueblo" vitale e umano delle periferie prima che finisca sulle pagine di cronaca

A distanza di due anni da Laika torna stasera al teatro Petrella di Longiano, ore 21, Ascanio Celestini autore e interprete di un teatro di narrazione arcaico e civile che non invecchia. Presenta Pueblo, secondo capitolo di una trilogia cominciata con “Laika” dedicata e incentrata sulle periferie nostrane e lontane, che ha protagonista l’umanità che lì vive.

Ascanio, dopo “Laika” continua a dare voce al mondo delle periferie; come si evolve in “Pueblo” il racconto di questo universo considerato minore?

«Pueblo e Laika condividono lo stesso luogo, lo stesso panorama di parcheggi di supermercati e magazzini – risponde il protagonista Celestini –. Se in Laika c’era un barbone immigrato, qui c’è una barbona italiana che ha passato l’infanzia in orfanotrofio e ora vive in un prefabbricato di plastica. In Laika il supermercato veniva visto da fuori, in Pueblo siamo dentro insieme alla protagonista Violetta, che lavora alla cassa. A me interessa raccontare questo popolo, vitale e umano, prima che finisca nelle pagine della cronaca».

Ha scelto il titolo “Pueblo” perché la parola popolo è più efficace in lingua spagnola, o è un rimando ai popoli indigeni americani?

«Ha questo doppio significato, e forse anche un terzo. I pueblos sono un insieme di popoli accomunati dallo sguardo degli spagnoli invasori e genocidari».

Il suo raccontare dà dignità a persone solitamente citate nelle cronache di fatti negativi. Oltre alla dignità teatrale, qual è il passo successivo del racconto di questa umanità? I personaggi hanno possibilità di diventare protagonisti di una storia con un diverso sviluppo drammaturgico?

«Non so rispondere. Certo è che da quando il ’900 di grandi passioni ha cominciato a finire, ci hanno convinto che non esistono visioni del mondo differenti, ma una sola. Chi la condivide sta nella Storia, chi no, resta fuori. Sono convinto che sia meglio starne fuori per costruire un’altra storia, anzi tante storie fuori dalla visione dominante che ci viene venduta come l’unica possibile: capitalismo, mercati, democrazia fondata su una rappresentanza di facciata, internet che ti convince di stare al centro del mondo, mentre invece ti lascia da solo in mutande davanti a un computer».

“Pueblo” ha un filo conduttore, racconta un’altra periferia o personaggi di una stessa periferia, perché in fondo tutte le periferie sono uguali?

«Le periferie sono tutte uguali per chi le vede da lontano. A forza di ripetere che si somigliano tutte, finisce che ci credono anche quelli che le abitano. A me interessa raccontare proprio la differenza che rende vivi questi personaggi, e dunque anche gli esseri umani che essi rappresentano sulla scena».

Lo scontro con l’umanità periferica è sempre più acceso e preoccupante, ormai anche nelle piccole città. È l’eterna lotta del più forte sul più debole o piuttosto, alla luce della maggiore consapevolezza che l’uomo di oggi ha maturato, chi è alla guida potrebbe favorire un superamento più armonico?

«Chi guida i cittadini lavora per il proprio interesse. I partiti sono aziende che vendono un prodotto e trasformano gli elettori in clienti. Occuparsi dei diritti civili e sociali come unioni civili, lotta contro la tortura di stato, dignità per i più poveri, gli immigrati, i detenuti, i rom… è possibile se si combattono battaglie impopolari che non fanno vendere il prodotto-partito. La classe media viene messa contro i poveri, i poveri scagliati contro i poverissimi. Lo scenario è disastroso. L’unico comportamento politico ragionevole è l’autorganizzazione; occuparsi direttamente dei problemi e non delegare la gestione delle cose alle facce pulite che vediamo in televisione».

Dopo le recenti elezioni, crede che il raccontare di “Pueblo” acquisti più valore, o sente la necessità di costruire un’altra storia?

«Il mio racconto non cambia, voglio sottolineare la differenza tra presente e attualità. Il presente è il tempo della nostra vita, non fa parte del passato. L’attualità è un tempo brevissimo raccontato dal giornale di oggi, invecchia rapidamente, la dimentichiamo senza che lasci tracce. Il presente invece ci segna, ci serve per capire chi siamo e in quale direzione ci stiamo muovendo. Nella maggior parte dei casi le consultazioni elettorali non cambiano la Storia di una virgola; influenzano solo marginalmente il presente. Mi interessano come cittadino, ma le storie che scrivo devono occuparsi di altro».

La sua forma di narrare “antica” sembra ripetersi in ogni tempo.

«Raccolgo storie e le racconto. In mezzo c’è un lavoro di riscrittura e improvvisazione. È un’operazione che facciamo da sempre. Stiamo in mezzo alla Storia del nostro tempo; non siamo osservatori, ma attori della Storia».

Cosa vorrebbe ancora fare, potendo prendersi tempo per sé?

«Ho bisogno di scrivere, di stare da solo e scrivere. Sto finendo un libro insieme all’artista Giovanni Albanese; assembla pezzi di ferro, oggetti che sembrano usciti da un magazzino e li trasforma in personaggi. Io li guardo e racconto le loro vite, le invento come se le avessero vissute. Così come in Pueblo non serve solo conoscere la vita degli altri, ma anche immaginarla. Perché non bastano conoscenza e coscienza. La vita senza l’immaginazione somiglia a un ufficio di impiegati che timbrano carte e aspettano la pausa pranzo».

Info: 0547 666008

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