«Eccellenza, meritocrazia e competizione? Pseudo valori, a scuola non funzionano»

Rimini

RAVENNA. Christian Raimo, classe 1975, scrittore, intellettuale e professore di Storia e filosofia a Roma, ha scritto per Einaudi un pamphlet che sta facendo rumore, “Tutti i banchi sono uguali”.

Si tratta di un affondo sulla scuola italiana e sulle sue storture, che cerca di isolare cause ed effetti di questa crisi, in aperta polemica con la svolta aziendalista delle politiche educative ministeriali, da Gelmini alla “Buona scuola”. Raimo presenterà il libro per la rassegna Il tempo ritrovato, questa sera alle 18 in Classense.

Raimo, come sta andando il libro?

«Molto bene. Le presentazioni sono partecipate, si sente il bisogno di riflettere e discutere sui temi della pedagogia. Probabilmente è perché non lo si fa più all’interno delle mura scolastiche, luoghi che sono stati impoveriti rispetto alla discussione».

Si ritiene il lavoro di insegnante di serie B rispetto altre occupazioni. Lei, ad esempio, intellettuale e scrittore affermato, perché ha scelto questa occupazione?

«La penso come Guido Calogero: una cosa non può andare senza l’altra. Non è una semplice questione etica: solo nella didattica un intellettuale può mettersi in discussione sul serio. Siamo abituati a intellettuali comunicatori, a uomini col megafono: l’idea di conservare uno stile dialettico nel proprio lavoro mi sembra essenziale per la ricerca intellettuale in sé».

Nel suo libro argomenta che, attraverso «dispositivi di disuguaglianza» spesso surrettizi, la scuola italiana è rimasta classista. Parla dell’eccessiva mole dei compiti a casa, delle ripetizioni private, dei consigli orientativi alla fine delle scuole medie. Cosa fa lei per arginare questi dispositivi nelle sue classi?

«Posso dire quello che occorrerebbe fare fuori dalla classe. Gli insegnanti fanno un lavoro di resistenza incredibile: per questo la scuola pubblica funziona ancora. Ma è importante anche ciò che viene fuori dalla classe: nelle scelte delle politiche educative, nelle circolari ministeriali... Ogni classe ha delle condizioni in cui si verifica, che influiscono sulla qualità di ogni singola ora di lezione».

Può fare un esempio?

«Una delle questioni fondamentali è il reddito degli insegnanti, basso in modo impressionante. La perdita del valore d’acquisto del salario negli ultimi 10 anni, in cui gli stipendi sono stati bloccati, è di 300 euro al mese circa. Ho iniziato a lavorare 10 anni fa: è come se avessi perso 60mila euro. Questa cifra la sento nella fatica di preparare le lezioni, nel non poter svolgere un’attività formativa... Si compensa con la buona volontà, con la passione, l’auto-sfruttamento. Ma queste risorse prima o poi finiscono».

Qual è la qualità più importante per un insegnante?

«Un insegnante buono è quello che si mette sempre in discussione. E ovviamente mettersi in discussione con un reddito così basso è molto difficile».

Lei sostiene che nelle politiche educative italiane si è assistito dagli anni Settanta a un progressivo passaggio dalla pedagogia all’«economia dell’educazione». Che cosa intende?

«La storia della scuola italiana è stata illuminata da grandi pedagogisti come Lodi, Ciari, Don Milani, Montessori. Per questo l’Italia repubblicana è stata il Paese che ha fatto il più importante salto verso l’alfabetizzazione insieme alla Corea del Sud. Questa enorme eredità è stata messa da parte, nelle politiche educative ministeriali, a scapito di economisti, formatisi su una pseudo disciplina chiamata “economics of education”».

Che significa?

«Si pensa alla scuola come a uno strumento per aumentare il Pil: investo 1 euro nella scuola, me ne deve tornare 1,5. La scuola come un grande sistema di reclutamento e di selezione del personale. Non è una mia perversione complottista. Se si leggono, dagli anni Sessanta in poi, i consulenti e le circolari ministeriali, si può davvero trovare un filo rosso, a partire dall’ingegner Martinoli, ex Olivetti, fino a oggi con Roger Abranavel».

La logica di mercato sta influendo sulla formazione degli studenti?

«Direi più una logica d’impresa. Spesso si sente dire, quando la cosa pubblica va male, che bisognerebbe “trasformarla in un’azienda”. Ma in realtà sono le aziende a fallire. La scuola, nonostante tutti i tagli, continua a funzionare. La retorica aziendalista è fallace, cancella l’idea di scuola come dispositivo di uguaglianza e inclusione, com’era intesa nella carta costituzionale, e ne fa un luogo privilegiato per pseudo valori come eccellenza, meritocrazia e competizione, che secondo me non funzionano neppure in economia, figuriamoci a scuola».

Non crede che uguaglianza e meritocrazia siano strettamente connesse? La prima è assolutamente necessaria alla seconda, e la seconda è il coronamento etico della prima.

«C’è un fraintendimento sul concetto di meritocrazia. Il nome viene coniato dal sociologo Michael Young che, nel libro “The rise of meritocracy”, del 1958, ipotizza una società governata da una classe di meritocratici. Ma non è un’utopia: è un inferno. Perché non è vero che gli intelligenti devono avere più diritti degli stupidi. Spesso le persone più intelligenti e acculturate nascono in contesti più felici. E poi: chi è che decide il merito? Spesso il merito traduce un’adesione a dei principi di potere decisi da qualcun altro».

È stato definito «razzista verso i più ricchi». Che cosa risponde?

«Sono piacevolmente razzista verso i più ricchi. È una forma di razzismo sensata ed etica, come l’odio di classe. È un sentimento genuino, eticamente giusto. Ovviamente, non significa odiare le persone, ma odiare una classe, un sistema di privilegi e di esclusione sociale. Penso che l’odio di classe sia un sentimento nobile».

È diventata virale sul web la sua presenza in studio da Belpietro, nel programma “Dalla parte vostra”. Perché andare in un salotto del genere? A che serve?

«Il ruolo dell’intellettuale sta anche nel tentativo di mettere in discussione i media: incidere non soltanto sul messaggio, ma anche sull’emittente. È importante provare a sabotare questi programmi».

www.iltemporitrovatoravenna.it

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