Com'è tenebrosa la Romagna di Baldini

Rimini

RAVENNA. Eraldo Baldini torna in libreria con Tenebrosa Romagna (Ponte Vecchio editore). A pochi mesi dal suo ultimo romanzo Nevicava sangue, lo scrittore ravennate questa volta ripercorre i sentieri dei suoi esordi da antropologo con una riedizione di Paura e “maraviglia” in Romagna. Il prodigioso, il soprannaturale, il magico.

Un saggio da tempo introvabile ma considerato un piccolo gioiello per chi ama la ricerca attorno alle tradizioni e ai costumi romagnoli.

Baldini, dopo anni in cui la dimensione di romanziere la aveva quasi completamente assorbito, con Tenebrosa Romagna ecco un ritorno alla veste originale: quella dell’antropologo, perché?

«A dire la verità non ho mai dismesso i panni di etnologo e antropologo culturale. Negli ultimi anni, anzi, ho affrontato la saggistica anche con un respiro nazionale, prima con Halloween (Einaudi) del 2006, poi con Tenebroso Natale (Laterza) del 2012, entrambi scritti con Giuseppe Bellosi. Non ci sono “motivi editoriali” nella scelta di continuare a fare ricerca e saggistica: anzi, sono campi in cui mi impegno per pura passione, non derivandomene praticamente alcun guadagno».

Come si arriva a un libro del genere?

«Con questo libro riprendo in mano un volume di ventisei anni fa, Paura e “maraviglia” in Romagna, introvabile dal moltissimo tempo, che uso come base di partenza per una trattazione più vasta, completa e aggiornata, mettendo a frutto il lavoro di trent’anni e tutto ciò che sugli argomenti trattati ho potuto reperire e analizzare».

Che quadro emerge delle nostre paure ancestrali?

«Ne emerge un quadro vasto e affascinante dell’immaginario e delle paure dei nostri progenitori, pronti a dare un volto e un nome alle loro inquietudini, ai pericoli e i misteri derivanti sia dalla sfera del naturale che da quella del soprannaturale. Per arrivare a questo risultato (352 pagine fitte di notizie, di analisi, di comparazioni, ndr) ho consultato una bibliografia sterminata e ho indagato gli archivi. Capitolo dopo capitolo si dipana così una galleria di terrori e di figure che vanno dalla Borda ai lupi mannari, dagli spiriti ai folletti, dal Mazapégul ai demoni meridiani, dai draghi ai “mostri”, dall’interpretazione dei “prodigi” celesti a quella dei terremoti, eccetera».

Ci sarebbe mai stato il gotico rurale senza quegli anni di studi?

«Credo di no. Ho spesso portato in narrativa, infatti, non solo le suggestioni della cultura popolare, delle superstizioni, delle leggende, ma anche la competenza che in tanti anni di studio e ricerca credo di avere consolidato su quegli argomenti. Per questo ritengo le mie due “professioni”, quella di narratore e quella di antropologo culturale, intimamente legate e interdipendenti».

Quale tra le tante storie, leggende e miti scoperti o trattati l’ ha maggiormente impressionata? E perché?

«Impossibile da dire, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ciò che impressiona davvero, comunque, è constatare quale enorme ed elaborato universo semiotico e mentale sia nato nella nostra (come nelle altre) popolazione, a livello sia popolare che “dotto”, per via della necessità di misurarsi con tutto ciò che risultava misterioso, “tenebroso” appunto».

Che tratto emerge nel rapporto tra romagnoli e soprannaturale?

«Non è facile trovare specificità nette in questo senso. Credo comunque di poter dire che i romagnoli hanno saputo sempre essere sia fantasiosi che concreti, e che le credenze, le tradizioni, le superstizioni, i timori non hanno mai impedito loro di avere un approccio fattivo e in qualche modo positivo col mondo; un approccio libero dagli oscuri e frenanti fatalismi che hanno caratterizzato la mentalità di altre popolazioni. Le difficoltà, i misteri non sono mai stati vissuti dall’uomo romagnolo, perlomeno negli ultimi secoli, come condanne a cui assoggettarsi, ma come elementi da definire, da indagare, da provare a combattere con i mezzi che l’orizzonte culturale metteva via via a disposizione».

 

 

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