Quando il critico Elio Pagliarani vergava la sua poesia giornalistica

Rimini

RIMINI. Vivida testimonianza di «entusiasmo e passione e dignità civile» (nelle parole dello stesso autore), le cronache teatrali di Elio Pagliarani, raccolte nella selezione Il fiato dello spettatore (da lui curata ed edita da Marsilio nel 1972), sono adesso ripubblicate dall’editore L’Orma con il titolo Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro (1966-1984). Il volume, a cura di Marianna Marrucci, ha infatti esteso la possibilità di seguirne la traiettoria critica e raccoglie anche gli scritti teorici apparsi sulle riviste Nuova corrente, Quindici, Sipario a fianco dei pezzi giornalistici per Paese sera.

Reportage di anni entusiasmanti

«Se il recensore assiste al debutto assoluto di Orgia, in quel deposito di arte presente dove Pasolini volle allestirlo, se è presente alla prima spoletina de Il principe costante, o se ammira Perla Peragallo nel tutù bianco di O’ zappatore. Se il recensore è un testimone e un narratore, un giornalista e un intellettuale, se è Elio Pagliarani, allora la critica teatrale si fa reportage di anni entusiasmanti e drammatici, l’articolo di giornale si confonde – felicemente – con la poesia» scrive Alessandro Iachino nelle sue note al volume.

Per la curatrice Marrucci la capacità dello scrittore romagnolo era quella di andare «alla ricerca della scrittura scenica, ovvero la consapevolezza della scrittura di essere di carta, di aggirarsi tra fondali di carta, con un fruscio di carta, e da un lato esterno la vocazione alla piazza, allo spettacolo di carta, l’ambizione che la carta diventi cartapesta. Sono i due poli d’attrazione tra i quali si muove l’opera poetica di Pagliarani. Il teatro, diceva, “come tramite ideale, il mezzo più diretto per verificare la capacità di provocazione della poesia”».

Stile sicuro e prosa colloquiale

Testimonianze critiche appassionate e appassionanti di importanti stagioni e protagonisti del teatro italiano, scritte in uno stile sicuro e una prosa colloquiale attenta a far entrare il lettore dentro ognuno degli spettacoli, sapendolo apprezzare e raccontare in ogni particolare. Con esse l’autore evidenzia grande cultura storica della scena, così come l’amore egualmente portato ai classici come all’avanguardia e alla piazza, disegnando e proponendo un ampio panorama della ricerca teatrale tra gli anni Sessanta e Ottanta.

Ogni spettacolo per lui è da intendersi coralmente, nel complesso dell’intera rappresentazione drammatica (come per il Living Teatre, che cita espressamente nell’introduzione teorica sul Teatro come verifica), come crescente ambizione di totalità, cioè di sintesi tra le varie arti, banco di prova dei vari linguaggi.

La socialità̀ dell’arte è altresì intesa «come capacità̀ di provocazione immediata», annullamento, dunque «della separatezza sacerdotale tra il performer in scena e un’audience passiva e gastronomica» (quella ironicamente definita delle «vice presidentesse»). È quella che fa appello insieme all’intelletto e ai sensi, con punti di riferimento per lui imprescindibili: dal progettare l’utopia in Brecht ad Artaud e al senso del teatro come cerimonia collettiva, a Grotowski e il corpo umano, come resa specifica di comunicazione, di linguaggio.

Anche le sue stroncature brillano d’ironia, quella con cui egli stesso si rivolge al lettore commentando il proprio stile: «È ricorrendo a un’abbondanza di parentesi e incisi, divagazioni e citazioni, che i resoconti dal Valle, dalla Pergola, da Santarcangelo acquisiscono quel prezioso valore che li rende opera d’arte e letteratura... A teatro è̀ il fiato dello spettatore che dà fiato all’attore. Lo so per via che ogni tanto recito versi: io vario, essi variano, in funzione di chi ascolta, e viceversa».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui