Nella lingua di Lello Baldini

Rimini

RIMINI. In scena questa sera alla Cineteca di Rimini La fondazione di e con Raffaello Baldini, il video che lo ritrae durante l’ultima interpretazione del suo testo. A presentarlo il regista Stefano Bisulli e Fabio Bruschi, ideatore e curatore del progetto Lingue di confine in cui rientra l’iniziativa, con la partecipazione di Davide Pioggia, che interverrà sul dialetto di Baldini forte dei suoi studi di linguistica e di due opere fondamentali per le ricerche sul dialetto.

Pioggia, lei ha intitolato la sua relazione Due o tre cose su Lello e il dialetto.

«L’idea del titolo è venuta a Fabio Bruschi. Nel 2002 a Santarcangelo fu organizzata una serata in onore di Nino Pedretti, in quell’occasione Baldini intervenne con un testo intitolato Due tre cose su Nino e il dialetto. Ebbene, l’idea è quella di fare, in parallelo, alcune considerazioni sul rapporto di Baldini col dialetto. Si tratta di uno spunto, perché Lello parla di Nino in virtù d’una conoscenza personale, mentre le mie riflessioni sono quelle di un glottologo che prende le mosse dai testi, dalle interviste e da alcune informazioni riferite da chi ha avuto modo di frequentare il poeta, più o meno intimamente».

E qual era il rapporto di Baldini col dialetto?

 

«Lello ne ha parlato più volte, ma precisando che stava riferendo le sue sensazioni, che non necessariamente coincidono coi fatti oggettivi. Dichiarò ad esempio: “Ho la sensazione che il dialetto non abbia grammatica, né sintassi, né regole, l’avrà ma la mia sensazione, se qualcuno parla dialetto, è che nessuno lo corregge”. Ora, è chiaro che il santarcangiolese, come tutte le lingue del mondo, ha una grammatica e una sintassi molto rigorose, e anche molto complicate. D’altra parte lo stesso Baldini, quando dice “l’avrà”, si rende conto, razionalmente, che deve avere una sua grammatica. Però la sua sensazione non è questa: per lui parlare dialetto è una cosa del tutto naturale, e ciò che è naturale si può fare solo in un certo modo. Ecco, vorrei fare alcune riflessioni, da un punto di vista linguistico, su queste sue sensazioni, perché ritengo che da esse possa emergere una chiave di lettura della sua opera. Ovviamente una chiave di lettura secondo il punto di vista della linguistica, che non coincide necessariamente con quello della critica letteraria, ma è complementare».

Lei che ha studiato il dialetto dei poeti santarcangiolesi con occhio “scientifico”, cosa trova di diverso in Baldini rispetto a Pedretti, a Fucci o a Guerra?

«Quando Baldini vinse il Premio Viareggio qualcuno protestò, sostenendo che scrivere poesia in dialetto è “come nuotare con le pinne”. Alla base di questa affermazione sembra esserci la convinzione che chi scrive in dialetto si trova una lingua già pronta per l’uso poetico, e non deve fare la fatica di elaborarne una sua. Invece, dice Baldini, “il milanese di Loi non sembra il milanese di Tessa, e il friulano di Giacomini non sembra il friulano di Pasolini”. È evidente allora che c’è sempre, in tutti questi autori, un lavoro di ricerca per dilatare le capacità espressive del dialetto che si sente parlare comunemente per la strada. Questo vale anche qui: il santarcangiolese di Baldini non è quello di Guerra, né quello di Fucci eccetera, perché ognuno ha lavorato a modo suo per ampliare le capacità espressive della lingua».

Lei è uno studioso del dialetto nonostante tutt’altra formazione: come mai?

«È vero che mi sono laureato in Fisica, ma per me la linguistica e la fisica non sono tanto distanti. Io amo trovare la struttura matematica delle cose, e le lingue, sotto sotto, hanno un struttura matematica. La struttura dei dialetti romagnoli, poi, è particolarmente complessa e pone alcune sfide intellettuali molto intriganti. Io sono il tipo che vuole sapere com’è fatta la grammatica della lingua. E non solo la grammatica. Detto questo, sarà bene precisare che nei miei libri non si trovano equazioni matematiche, né teoremi, perché credo si possa parlare di queste cose anche in modo discorsivo».

Ore 21, ingresso libero

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