Il mondo visto all'altezza della gente bassa

Rimini

RAVENNA. Negli anni hanno mietuto lodi e biasimo, polarizzando il pubblico dei lettori in fan acritici e detrattori feroci. Quale che sia la nostra opinione, bisogna riconoscere ai Wu Ming una profonda influenza sul panorama della letteratura italiana di questo inizio millennio, grazie a romanzi come “Q” (ancora si chiamavano Luther Blissett), “54”, “Manituana” e a saggi come “New Italian Epic”.

Da poco Wu Ming 4, all'anagrafe Federico Guglielmi, ravennate per nascita e bolognese d'adozione, ha pubblicato per Bompiani un libro particolare, “Il piccolo regno”, a metà strada fra romanzo di formazione e racconto per ragazzi. Il Corriere ne ha parlato con il più romagnolo degli scrittori senza nome più famosi d’Italia.

Guglielmi, che studi ha fatto? Come è arrivato alla scrittura?

«La scrittura è una passione iniziata molto presto. L'ho accompagnata durante gli studi classici, ma in realtà non l'ho mai pensata come a un mestiere. Dopo l'università, quando si è trattato di capire come campare, ho provato a farne un lavoro».

Come è avvenuto il passaggio alla professione?

«Non è mai definitivo. Rimani sempre un precario della cultura. Quando “Q”, romanzo scritto con i Luther Blissett, cominciò ad andare molto bene, ci rendemmo conto che forse c'era la possibilità di trasformarlo in un mestiere. Ma prima di riuscire a vivere di scrittura ci abbiamo messo ancora qualche anno».

È nato a Ravenna?

«Sì, sono nato qui. Quasi tutta la mia famiglia vive o qui, o spalmata sul resto della Romagna, ma da quando ho tre anni abito a Bologna. Ravenna per me è la seconda città, quella dei nonni, degli zii, dei cugini. Il mio mare di riferimento è sempre stato questo».

Sul vostro sito c’è una rubrica divertentissima, “Hanno detto di noi”, che raccoglie stroncature e cattiverie sul vostro conto. Come si spiega tutta questa acredine?

«Il motivo secondo me è abbastanza semplice: abbiamo sempre cantato a modo nostro, costruendoci da soli il nostro percorso. Non abbiamo mai chiesto niente a nessuno, non ci siamo infilati in nessuna consorteria, mai stati appresso a professore. Non ci siamo mai ritirati dal dibattito pubblico, è vero, ma non c'entra la militanza. È un invidia metodologica».

“Il Piccolo Regno” è un romanzo per ragazzi?

«In realtà è più un romanzo per adulti che si ricordano di quand'erano ragazzi. Ci sono due livelli narrativi: una premessa e un epilogo nei quali parla il protagonista novantenne; nel mezzo, è il narratore ragazzino che narra un'estate della sua infanzia negli anni '30. L'inizio e la fine non sono per bambini: uso un registro più adulto. E infatti ho notato che alcuni ragazzi si concentrano sulla parte centrale – ma va benissimo, perché uno un libro lo legge come vuole. Perciò non è stata un'opera facile da inquadrare».

Che accoglienza ha avuto?

«Ci sono state molte recensioni positive sul web, ma sulla stampa è stato accolto con silenzio. Poi sono arrivate le scuole, e lì si è aperta una nuova strada. È da un anno ormai che mi chiamano a presentarlo».

Secondo lei il romanzo coming-of-age, o in generale il romanzo per bambini, è considerato in Italia un genere di serie B?

«Purtroppo sì, anche se tutti sanno che non è vero. Ci sono alcuni fenomeni letterari clamorosi. Ci sono dei classici, come Astrid Lindgren o Roald Dahl. Purtroppo la letteratura per ragazzi, che è uno dei settori che tirano di più in questo paese – loro hanno ancora tempo di leggere e gli adulti si sentono in colpa perché non lo fanno, quindi regalano libri ai propri figli – è considerata per fasce d'età, di biennio e biennio. Un libro che non può essere facilmente incasellato, non si sa come trattarlo».

È difficile scrivere per ragazzi?

«Di certe cose non puoi parlare. Non per tabù, ma perché da ragazzo non ne sapevi niente. Che so, tabacco, sesso: erano fuori dal tuo raggio di azione. Devi provare a ricordarti com'era il mondo visto all'altezza della Gente Bassa, come la chiamo nel romanzo. Al tempo stesso però ho fatto la scelta di non abbassare troppo il registro narrativo: mai sopportato quella letteratura per ragazzi che prova a scimmiottare un certo lessico o un certo slang. Un'altra cosa che non ho fatto è semplificare troppo le problematiche: volevo mettere questi ragazzini davanti a delle questioni toste: la vita, la morte, i fantasmi, i segreti di famiglia. Problemi che li costringono a crescere».

È una storia che aveva da molto in testa?

«Sì, da un pezzo. Mi è venuta in mente dopo una serie di letture di romanzi per ragazzi inglesi di cent'anni fa. Mi piaceva lavorare su quel canone, la banda di ragazzi in campagna per le vacanze, che è stato ripreso da molti. Penso a Stephen King, con “The body”, che è stato parte della mia formazione. Mi sono rifatto a questo filone con una storia mia, che si è sbloccata soltanto da un certo momento in poi. Sapevo che ci sarebbe stato un fantasma e poco altro. Poi, dopo un incidente capitato a mio figlio, mi si è accesa una lampadina».

Ovvero?

«Hai presente “Sliding doors”? Una biforcazione della vita: se le cose fossero andate in un altro modo, sarebbe cambiato tutto. Così ho capito di chi era il fantasma. Per questo, benché il romanzo non sia lunghissimo, la lavorazione è durata anni. Devo ringraziare anche l'editor di Bompiani, Beatrice Masini, per il prezioso aiuto che mi ha dato».

Qual è il lavoro per cui va più fiero?

«Da solista, senza dubbio “Il piccolo regno”. Dei lavori collettivi, spero il prossimo».

Di cosa parlerà?

«Si può definire un crossover fra romanzo storico e fantascienza. L'ambientazione si colloca prima e dopo la rivoluzione russa. Il protagonista, realmente esistito, è stato uno dei padri della fantascienza sovietica... immaginiamo che qualcosa che ha scritto possa prendere vita. Per riassumere, pensa a Lenin su un'astronave».

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