«Il nuovo Fulgor l'ultimo regalo alla mia città»

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RIMINI. Il progetto della Casa del cinema nel Palazzo Valloni di Rimini, sede del Fulgor, sta finalmente venendo alla luce. Tra poche settimane apriranno le due sale cinematografiche e, successivamente, ai piani superiori, gli spazi museali dedicati a Federico Fellini.

Annio Matteini (San Marino, 1944) è l’architetto a cui è stato affidato – sin dagli anni Settanta – il progetto di recupero dell’intero stabile.

Architetto Matteini, lei è stato il progettista di questo lungo cantiere di circa 8.000 metri cubi con una superficie di 2.500 metri quadrati. Quali sono stati gli obiettivi e le linee guida che hanno animato il suo lavoro?

«Si tratta di una progettazione iniziata – come mi piace sottolineare suscitando sempre stupore e ironia – nel lontanissimo 1975, allorquando mi ero da poco laureato con Franco Albini al Politecnico di Milano e stavo anche svolgendo attività didattica nell’Istituto d’architettura degli interni della Facoltà di Architettura milanese sotto la direzione di Vittoriano Viganò, un grande architetto, di recente riemerso nei ricordi riminesi quale progettista dei pregevoli interventi sulle sponde del porto canale».

Il progetto ha avuto varie fasi.

«Nei decenni gli obiettivi progettuali mutarono al variare dei programmi dell’Amministrazione comunale di Rimini che fu sempre, opportunamente, l’interlocutore privilegiato dell’Azienda servizi alla persona Valloni Marecchia, come ora si connota l’ente benefico proprietario del complesso».

Quale organizzazione distributiva era stata pensata per i vari piani?

«Sono state svariate le versioni del progetto architettonico redatte dal mio studio, e l’ultima al pianterreno contemplava – come poi si è realizzato – oltre al recupero della sala del Fulgor, l’inserimento sia di un’ulteriore piccola sala cinematografica adiacente alla via Verdi, sia di un vasto atrio d’ingresso a tutta altezza con il bar, i servizi e l’imponente scala di accesso alla galleria affiancata dal volume dei servizi».

Inizialmente l’utilizzo dello stabile era stato pensato per un uso differente.

«Quel progetto prevedeva, nel primo piano, gli spazi per la Cineteca comunale e per la Fondazione Federico Fellini, con una grande sala di lettura e video-audio, con sale riunioni e uffici e, nel piano superiore, in corrispondenza del grazioso balcone della facciata, una sede museale felliniana, completata da relativi locali per gli uffici».

E al terzo piano?

«Il terzo e ultimo piano, prima inesistente e – ci tengo a sottolineare – invenzione del mio studio, era invece destinato all’imprescindibile conservazione dei libri, dei manifesti, delle pellicole e dei documenti, tramite gli svariati locali realizzati nel sottotetto scandito dalle suggestive capriate lignee, con un rigido controllo delle problematiche antincendio, e con un montacarichi idoneo a svolgere il collegamento tra i depositi librari e la sala di lettura del primo piano».

Nel nuovo progetto voluto dall’amministrazione comunale invece, i tre piani superiori verranno adibiti a museo, il cui ingresso sarà su piazzetta San Martino.

«Sulla piazzetta San Martino (che si spera venga presto pedonalizzata) e in corrispondenza del profondo cavedio esistente sul vicolo Valloni, ho ubicato l’atrio d’ingresso ai piani, completo di bookshop e dotato di un ascensore con scala avvolgente e di un ulteriore ascensore-montacarichi di grandi dimensioni».

Ma avete lavorato anche sotto al palazzo.

«Nell’interrato (che, nonostante le ridotte dimensioni dello scavo, ha comportato inevitabili e lunghissime verifiche archeologiche) abbiamo inserito le centrali degli impianti tecnologici e antincendio, mentre nel tratto della copertura prospiciente la medesima piazzetta si trova la grande torre evaporativa dell’impianto di condizionamento».

Insomma, un’operazione piuttosto complessa.

«In definitiva, questo è il progetto realizzato che consentirà un’ampia fruizione e la cui complessità – trattandosi di una profonda ristrutturazione condizionata da una miriade di vincoli e ben più complicata di una nuova edificazione – travalica molto il fascino che, pur comprensibilmente, suscitano il cinema Fulgor e la sua deliziosa facciata come resuscitata per noi riminesi».

Come si è integrato il suo lavoro con quello scenografico di Dante Ferretti?

«È stato emozionante incontrare nel 2008 un personaggio di fama quale Dante Ferretti, insieme a Giuseppe Chicchi per la Fondazione (da sindaco, con il vice Fabio Zavatta, egli ha il merito d’avere fattivamente avviato quanto si sta per inaugurare), all’assessore alla Cultura Stefano Pivato e a Massimiliano Angelini, allora presidente dell’Asp Valloni Marecchia».

Nessun timore di veder “rovinato” il suo lavoro? Nessuno scontro?

«Non nascondo che, da profondo conoscitore di certe propensioni del mondo politico, ebbi allora il larvato timore che il mio progetto, pur ufficialmente condiviso e approvato, potesse essere, anche soltanto parzialmente, sovvertito dall’osannato Ferretti. Il quale, invece, ci intrattenne amabilmente con ricordi felliniani e con racconti hollywoodiani, manifestando però attenzione e compiacimento per tutto il progetto redatto, di cui poi nel suo studio a Cinecittà esaminammo il modello smontabile in legno che i miei collaboratori avevano costruito e che conservo gelosamente».

Le vostre idee coincidevano?

«L’idea dell’allestimento (“romagnol-hollywoodiano”), che Ferretti in anteprima mi sottopose per la sala del cinema Fulgor e per la nuova saletta, non collimava con le mie sedimentate prefigurazioni, ma ho saputo ovviamente rispettare il suo ruolo di affermatissimo scenografo. Con ampia disponibilità (spesso inusuale negli architetti) ho pure responsabilmente provveduto alla sostituzione del pavimento in granito ricomposto originariamente nero con uno grigio, più idoneo a recepire le tonalità scure dei suoi rivestimenti in legno dell’atrio, mentre non ho potuto condividere che certi miei volumi edilizi aggettanti all’interno del grande contenitore dell’atrio e volutamente ridotti in altezza, perdessero incongruamente siffatta calibrata connotazione. Comunque i lavori sono terminati e sia i volumi dell’architettura che i rivestimenti della scenografia sono sotto gli occhi di tutti».

Ha annunciato che questa – dedicata alla sua terra d’origine – sarà la sua ultima realizzazione.

«Questa è l’ultima opera con cui chiudo, a 73 anni e proprio nella mia città, una lunga attività professionale che ha spaziato nel mondo della pianificazione territoriale, della progettazione architettonica e ambientale fino all’architettura degli interni e alla grafica sociale».

Ne è soddisfatto?

«Non nascondo il compiacimento per avere realizzato un intervento che, nonostante il tempo trascorso dalla sua progettazione, potrà recepire e adeguarsi a quello che sarà il grande “Museo Fellini” ipotizzato di recente dall’Amministrazione comunale per tutta l’area e fino a Castel Sismondo».

È atteso infatti a giorni il bando internazionale che riguarderà la progettazione del Museo Fellini su tre assi: Castel Sismondo, i tre piani superiori di Palazzo Valloni e l’area di collegamento di circa 15mila metri quadrati.

Dunque questo sarà l’ultimo progetto di una carriera che si è svolta eminentemente lontano da Rimini.

«È il coronamento di un’attività svolta a Milano, nello studio di via Brera 17, proprio innanzi al giardinetto prospiciente la Pinacoteca e inizialmente con altri tre colleghi tra i quali Gabriele Basilico, con cui progettai i miei primi arredamenti (a Rimini lo studio del commercialista Luigi Dell’Omo) e le prime ricerche sulla “architettura spontanea” in Italia e che poi si dedicò, con successi internazionali, alla sola fotografia».

Qualche rimpianto?

«Di certo nessun rimpianto, anche perché in Romagna, oltre a ville e appartamenti privati, ho svolto incarichi avvincenti. Di certo fu l’insolito disegno di una villa bifamiliare costruita a Morciano e fotografata da Basilico a consentirmi un continuativo rapporto epistolare con Bruno Zevi e la pubblicazione di molteplici realizzazioni del mio studio sulla sua prestigiosa rivista L’architettura. Cronache e storia».

Qualche altra sua opera che si può vedere in Romagna?

«Ricordo anche il grande progetto di recupero del Padiglione delle Feste nelle Terme di Castrocaro (poi non realizzato) e quello del Palazzo comunale di Monte Colombo, entrambi con il calibrato inserimento di elementi contemporanei in un contesto storico».

Lei è figlio d’arte: suo padre, Nevio Matteini (Rimini 1914-1992), fu giornalista, saggista e storico.

«Il rapporto stretto con la mia città l’ho ritrovato negli ultimi anni, non soltanto grazie alla ripresa d’interesse da parte degli amministratori per il riutilizzo del mio progetto di Palazzo Valloni, ma anche per la riedizione e l’aggiornamento di alcune famose pubblicazioni di mio padre Nevio sulla Romagna cui mi sono applicato. È stata un’esperienza esaltante e imprevista, quella di dedicarmi ai testi, alle ricerche storiche, all’indagine di un passato familiare importante e prezioso».

Quali sono gli aspetti della ristrutturazione di Palazzo Valloni di cui va più orgoglioso, in definitiva i suoi “punti forti”?

«Anzitutto sottolineo il compiacimento per quanto ha prodotto l’esasperata ricerca progettuale che abbiamo condotto sulle piante dei diversi piani, memori anche dell’esperienza acquisita nella miriade di edifici residenziali realizzati nel settore dell’edilizia economica e popolare (una palestra ora totalmente trascurata, ma un tempo fondamentale per gli architetti). Ogni piano, infatti, funziona egregiamente nell’organizzazione degli ambienti, nella calibrata presenza dei servizi igienici, che abbiamo voluto anche raffinati, e nell’eccellente integrazione degli impianti tecnologici nonostante l’intrico impressionante delle murature preesistenti. Sono stati molto bravi, quindi, gli ingegneri dello studio Cicchetti e dello studio Zamagna».

Che cosa le piace maggiormente ricordare?

«Nell’atrio di corso d’Augusto (nel quale abbiamo inteso delineare un ambiente inaspettato e attrattivo da suggerire, una volta entrati, quasi di non… uscirne più!) ho voluto come spettacolizzare il vestibolo, enfatizzando la compresenza di volumi e di forme che culminano nelle accentuate sinuosità della scala diretta alla galleria e da me battezzata “scala Gradisca” per l’assonanza con il seno del personaggio felliniano. Va notato come non si tratti affatto di un formalismo decorativo (che ho sempre disdegnato nei miei progetti) bensì derivi anche dall’esigenza di inserire, proprio dietro quella parete, la scala connessa alla cabina di proiezione che ha l’ingresso nel vicolo Valloni».

Altre particolarità del progetto a cui tiene?

«Mi piace inoltre segnalare un inserimento misurato e significativo creato al primo piano nel fianco di via Verdi prossimo al corso d’Augusto. Si tratta di un’ampia vetrata dal profilo lievemente curvo sottolineata dall’analogo sfondato cieco sovrastante. Tramite la vetrata ho voluto come rendere permeabile, e proprio visibile dal corso d’Augusto, una nuova vita all’interno della cortina muraria di quel Palazzo Valloni che per decenni è stato trascurato e precluso ai riminesi. Non sto poi a ricordare le colonne metalliche circolari che abbiamo inserito sia nell’atrio che nella sala del Fulgor, né la cesura del cavedio sul vicolo Valloni recuperata».

Il palazzo conserva anche pregevoli segni di architetti che l’hanno preceduta.

«Pochi sanno, non essendo ancora fruibile l’edificio, del recupero della grande scala monumentale che dalla via Verdi giunge al primo piano. Essa è la memoria tangibile dell’intervento, all’inizio del Novecento, disegnato dall’architetto Addo Cupi. Le rampe della solenne scalinata, con i gradini in graniglia e l’aggraziato parapetto in ferro decorato, sono ora inondate dalla luce naturale mediante il grande squarcio che ho voluto praticare sulla copertura».

Come si immagina che questa realizzazione prenderà vita una volta terminato anche l’allestimento dei cinema e del museo?

«Sono convinto che essa, subito e bene, si inserirà nelle consuetudini dei riminesi. Non solamente per le due sale cinematografiche in un centro storico che da tempo ne è privo, ma per il ruolo che tali spazi, insieme a quelli dei piani sovrastanti, potranno assumere nell’ambito delle attività culturali, sociali e ricreative della nostra vivace comunità. Certamente la facciata rinnovata, ma anche gli altri fronti del complesso, hanno una dimensione e una immagine di tale levità che non respingono né intimoriscono come altre costruzioni monumentali. La buona architettura, così come l’arte, non cambierà il mondo, ma potere vedere, convivere, con volumi e superfici corrette e misurate, di certo suggerisce un modo nuovo di guardare».

I lavori per le sale e la facciata sono ora in fase di ultimazione.

«A breve le quattro bacheche che ho disegnato, con un perimetro fittamente scandito da asole retroilluminate, completeranno il pianterreno fiancheggiando, come nel passato, i tre ingressi dell’atrio di corso d’Augusto».

È emozionato?

«Non nascondo che dopo oltre 40 anni provo un’emozione profonda nel vedere realizzato questo progetto, e ho voluto assaporare un’ulteriore gioia varcandone l’atrio insieme a Lorenzo e a Rebecca, i miei giovanissimi nipoti, sforzandomi anche d’immaginare allorquando lo faranno un giorno da soli, ma ricordandomi».

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