«Devo tutto ai libri di Stephen King»

Rimini


RAVENNA. Alessandro Fabbri ha appena finito di tenere una masterclass agli studenti del campus ravennate per il Nightmare film festival. Ha parlato con i ragazzi del suo lavoro: la sceneggiatura di film e serie tv, tra cui l'acclamata 1992. Sorride, e togliendo gli occhiali da sole rivela due occhi vispi e inquieti. Parla del suo lavoro con passione, racconta il percorso che l'ha portato dalla provincia (è nato a Ravenna nel 1978) alla capitale del cinema italiano.

Fabbri, da quanto tempo fa lo sceneggiatore?
«Da quando mi sono trasferito a Roma, nel 2005».

Però scriveva anche da prima. Nel 1996 ha vinto il Campiello Giovani.
«Sì, con un romanzo breve. Poi nel 2000 ho pubblicato il primo romanzo con Minimum Fax, “Mosche ad Hollywood”».

Come nasce la passione per la scrittura?
«Nasce dalla lettura. Fino ai 12 anni ho fatto disperare i miei perché non leggevo niente. Poi ho letto un libro di Stephen King, mi ricordo ancora, “Christine. La macchina infernale”. Da quel momento non ho più smesso. Il sogno è iniziato dicendomi: “Vorrei tanto essere come questi scrittori, che ti tengono sveglio la notte a farti voltare le pagine”».

Stephen King è stato un autore importante per lei?
«Sì. In realtà i miei due amori da teenager sono stati King e Bukoswki. Poi lo spettro dei gusti si è allargato. Ma forse la letteratura americana è ancora quella che mi piace di più».

Cosa l’attira di più in un libro?
«Sono partito come un grande appassionato delle trame intricate, dei film d'azione, dei thriller. Poi crescendo e scrivendo ho capito quanto è importante il personaggio, la sua psicologia, la sua profondità per decidere la fortuna di un racconto».

Come si impara a scrivere?
«Scrivendo. Sbattendo la testa sui propri errori, e avendo la fortuna di potere confrontarsi con altri che fanno lo stesso mestiere. A maggior ragione per gli sceneggiatori: molto spesso si tratta di lavori di gruppo, per cui cerco sempre di imparare dai miei colleghi. Da quando sto a Roma faccio parte di una sorta di band di sceneggiatori: io, Stefano Sardo e Ludovica Rampoldi. Assieme abbiamo scritto “1992”, “In treatment”, “Il ragazzo invisibile” per Salvatores, “La doppia ora”».

Ci sono state per lei altre figure importanti?
«C'è stata Laura Lepri, una editor che mi ha insegnato tantissimo. Poi lo sceneggiatore e produttore Francesco Scardamaglia, che da giovane scrisse “...altrimenti ci arrabbiamo!”, un film cult della mia infanzia. Lui è stato uno dei primi a darmi fiducia».

Come avviene il passaggio da idea a produzione?
«Ho sempre cercato di lavorare all'americana. Tu scrivi un copione, vai da un produttore e lo proponi. Il punto di partenza è quello: si cerca un regista che ami la storia per quello che è, che la trovi in linea con la sua poetica e cerchi di valorizzarla. Spesso per il cinema italiano il processo è inverso: si parte dalla volontà del regista, da un'idea vaga, e si cerca di far funzionare il soggetto attorno a questa idea».

Quando ha capito che la scrittura sarebbe diventata il suo mestiere?
«Dopo un po' che stavo a Roma e vedevo che riuscivo a pagare l'affitto. Ma si è sempre consci che è un mestiere privo di reti di sicurezza. Per qualunque motivo, in un certo momento, può girarti male. Ma ormai sono andato troppo in là, non saprei cos'altro fare!».

Che rapporto ha con Ravenna?
«Strettissimo. Più lontano stai, più si rafforzano le radici. Di Roma apprezzo tutto, con l'occhio di un esterno. E lotto per mantenere questo sguardo».

Qualcosa della sua terra d’origine c'è anche in quello che scrive. Se non sbaglio, “Il re dell'ultima spiaggia” è ambientato proprio qui.
«Sì. Ancora prima c'è stato il libro scritto a quattro mani con Eraldo Baldini, “Quell'estate di sangue e di luna”, ambientato nelle campagne romagnole nel 1969. Per “Il re dell'ultima spiaggia” lo scenario era Marina di Ravenna, il mondo degli sfrenati happy hour, che poi si è un po' moderato. Un ottimo scenario per un noir. Mi piacerebbe scrivere altre storie ambientate qua; ma in un certo senso non vuoi sporcare i tuoi luoghi d'origine. Ravenna è casa mia. Me la tengo pulita, senza tanti eroi in giro a fare casini».

Qual è il più grande errore da evitare scrivendo sceneggiature?
«Bisogna evitare la tentazione di trasmettere forzatamente un messaggio, un senso, di imporre la tua visione al materiale. In realtà, quando scrivi, il trucco è lasciarsi andare, abbandonarsi alla storia. Il lavoro vero è sfrondare tutte le sovrastrutture e far parlare i personaggi. L'errore è evitare gli schemi per non essere noiosi e lasciare che sia il pubblico a trovare le sue risposte».

Che consiglio darebbe a un giovane ragazzo aspirante sceneggiatore?
«Sicurezze non ce ne sono più per nessuna professione. Per questa ce ne sono ancora meno. È necessaria un'enorme passione per la scrittura, questo è sicuro. Anche questo è un mestiere, una professione; ma al contrario di altri lavori ti coinvolge totalmente. Non c'è nessuno che ti dica: “Torna a casa, l'ufficio è chiuso”. Non si chiude mai, e ti deve piacere perché è così. Quindi scrivere, avere soggetti da proporre, passione e entusiasmo».

Che cosa sta scrivendo adesso?
«Tante cose in parallelo. È un momento caldo: stiamo scrivendo la terza stagione della serie, 1994. Poi ci sono altri progetti sulla rampa di lancio, tutte serie televisive, di cui due soggetti originali miei. Incrociamo le dita».

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