Il Sessantotto riminese e la romantica sconfitta dell’utopia

RIMINI. Chissà quanti si riconosceranno in queste foto pubblicate a lato. Sono “quadri” del Sessantotto riminese, un 1968 per molti versi atipico, iniziato in realtà nel 1967 all’Itis di Forlì, quando gli studenti presero a scioperare... di pomeriggio. Tempi lontanissimi eppure ancora da esaminare a fondo, da scandagliare non più con gli strumenti della cronaca ma con quelli della storia. È l’operazione tentata dal saggio A Rimini il ’68 degli studenti. Storia di un inizio a cura di Fabio Bruschi, edito da Panozzo a 50 anni esatti da quando tutto cominciò. La presentazione con gli autori domani alle 17 in Cineteca.


Bruschi, da operatore culturale quale lei è sempre stato, quale era la cultura che sottendeva al Sessantotto riminese? Sembra di evincere dal suo libro che fosse più cattolica che di sinistra.
«Di sicuro, come ho documentato, questa è una delle cose più rilevanti del Sessantotto riminese. Mi ha colpito non tanto il fatto che nel 1967/68, gran parte dei ragazzi e studenti di Gs costituissero il Movimento; quanto piuttosto l’incidenza sostanziale del mondo cattolico sugli studenti a Rimini. Questa cosa, dal punto di vista storiografico, era ignorata fino a pochi anni fa. Poi alcuni storici che mi hanno preceduto hanno sottolineato che, tra i tanti mondi possibili, quello più attrezzato e addestrato ad accogliere quanto c’era di nuovo in giro fosse proprio quello cattolico. Del resto il “calcio d’inizio” del 67-68 venne dato proprio dai Cattolici a Trento e Milano, furono loro i primi attori in scena».


Una “rivoluzione”, quella sessantottina, che passò attraverso la moda e il linguaggio, anche quello del corpo, i jeans e il tenersi ostentatamente per mano... fino al sesso libero.
«Certamente vero, ma è molto facile banalizzare questo aspetto. L’altra sera in Cineteca ho assistito al film “Assalto al cielo” di Francesco Munzi che è da vedere, perché contestualizza le parole con cui noi oggi descriviamo quel periodo. Bisogna ricordarsi per esempio, che fino al ’68 la “divisa” delle ragazze a scuola era: grembiule nero, colletto bianco e capelli raccolti. In pochi mesi cambiò tutto il costume, dalle pratiche sessuali alle posture dei corpi, da giacche e occhiali e capelli corti, a capelli lunghi, gonne corte, nudo totale. Ciò non è né buono né cattivo, è solo quanto successo».


Si ha l’impressione, leggendo il libro, che lo Stato venisse preso in contropiede senza riuscire a dare risposte agli studenti, ai giovani – un’eredità che ci portiamo dietro ancora oggi – mentre alcuni insegnanti e presidi fossero più disponibili a nuovi metodi, a nuovi approcci. Come poi avvenne al Serpieri.
«Gli storici del Movimento dicono: “Nelle ricostruzioni, gli altri non ci sono mai, parlano solo gli studenti”. Era sensato. Quindi siamo andati a spulciare che tipo di persone fossero i presidi. Di sicuro alcuni erano dialoganti, a volte ambigui, non mancavano le critiche agli studenti. Un esempio: quando l’occupazione del Serpieri continuò anche di notte, il preside Carlo Alberto Balducci non solo non chiamò la polizia ma portò le coperte agli studenti. Ma anche insegnanti come Maria Luisa Zennari – scomparsa di recente – che pure era uno spauracchio, dimostrarono il loro amore per lo studio e gli studenti e interloquirono con loro. Altri non ne vollero sapere: il preside del Classico, Sergio Ceccarelli, all’inizio del 1969 ci disse: “Volete arrivare alle 9, alle 10? Volete fumare? Volete uscire prima? Benissimo”. Così ci fregò, perché cedette solo sulle piccole cose e non su quelle importanti come la didattica».

La vicinanza a Lotta Continua, l’allontanamento da un Partito Comunista ritenuto troppo “vecchio saggio”, e la rottura tra i giovani cattolici e quelli comunisti, non portarono però, almeno a Rimini, a scegliere la strada della violenza, della lotta armata. Perché?
«A Rimini non ci furono né omicidi né violenza politica. Forse la dimensione di massa che il Movimento aveva lo vaccinò contro derive estremiste. Non avevamo nella testa una tradizione minoritaria, non volevamo vendette, ma solo spostare avanti gli equilibri sociali. Il radicamento e la mentalità maggioritaria ci hanno salvato, abbiamo scelto la politica. Si pensi alle carriere di alcuni capi del Movimento, divenuti sindaci e deputati di Rimini».

In definitiva lei rifiuta la definizione di “occasione mancata” per il Sessantotto , dandogli piuttosto la patente di ariete per fare breccia nei rapporti di potere e dare forma al nuovo, come le riforme degli anni Settanta. Una rivoluzione che restò nella testa.
«Sì, soprattutto nelle aggregazioni, nei gruppi, nei fermenti. Buona parte dei cattolici erano favorevoli a riforme e anche il Pci prese questa strada. In un documento del Classico, affermavamo dove eravamo, dove volevamo andare e come arrivarci. Chiedevamo una scuola superiore unitaria, una proposta fatta propria dal Pci anche se non se ne fece nulla. Il Governo non fece niente. Com’è che i Russi batterono Napoleone? Facendogli terra bruciata. Il Governo fece la stessa cosa: liberalizzò l’accesso all’università e praticamente spense il difficile esame di maturità. Non “quagliò” perché, come scrisse il Guardian sul Berlusconi vincitore nel 1994: “L’Italia ha aspetti esteriori di grande progresso ma in realtà è un Paese profondamente conservatore”. La finestra di opportunità del Sessantotto durò pochi mesi. Quando si arrivò al maggio parigino, era già tutto finito. Ci si innamorò della corografia delle barricate, il Movimento si immolò alla sconfitta, elemento romantico che è rimasto a lungo “patrimonio” della Sinistra italiana. Personalmente ho sempre preferito una mediocre vittoria...».

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