«Mettersi in ascolto e cercare risposte. Così si porta qualità nella quotidianità»

Rimini


«Quando mi hanno comunicato che avrei ricevuto il Premio Artusi ho pensato a uno scherzo. Mi trovavo a Pechino insieme a uno chef stellato. La prima cosa che gli ho detto è stata: ecco, adesso siamo alla pari».
A parlare è Antonio Citterio, architetto e designer lombardo classe 1950 la cui fama travalica da molti anni i confini italiani. Dalle pianificazioni urbane alle ristrutturazioni, dai grandi alberghi ai mobili, dalle abitazioni private agli oggetti di design (Arclinea, Flos, Kartell...).
Compasso d’oro nel 1987 e nel 1994, ha realizzato tra l’altro il Technogym Village di Cesena. Venticinque anni fa disegnò una cucina chiamata Artusi 1. In anni più recenti una linea di pentole Tvs Artusi 2.0: così quest’anno il Premio Artusi è andato a lui: «È uno dei riconoscimenti che ho gradito di più – ha detto –. Anche perché arriva da una terra laboriosa come la Romagna».
Il premio gli è stato consegnato sabato 14 ottobre a Casa Artusi, Forlimpopoli, con questa motivazione: «Citterio è figura eminente dell’architettura e del design italiani. Anche la progettazione per Tvs della batteria di cucina ispirata al padre della cucina italiana, esito di una ragguardevole ricerca nella cultura domestica e industriale, impreziosisce oggetti e cultura. Il Premio Artusi ne vuole coronare il talento».

Architetto Citterio, in un periodo in cui l’arte è spesso un investimento economico più che un modo di relazionarsi e interpretare la realtà, l’architettura sembra godere di un rinnovato interesse, anche popolare. Gli architetti diventano “archistar”, i designer espongono nelle gallerie d’arte (anche alcune sue opere fanno parte dell’esposizione permanente del Moma), gli urbanisti assomigliano a filosofi che sognano una “città ideale”. Si tratta di un nuovo Rinascimento?
«Considero positivamente il fatto che siano gli architetti e gli urbanisti ad avere una visione della società, perché portare qualità nella quotidianità, attraverso figure professionali come quelle del mondo della creatività, mi pare una cosa estremamente positiva. Siamo passati attraverso anni in cui la crescita urbana era vista come un bisogno del mercato; avere ora una dimensione più visionaria, intellettuale, del mondo è una cosa positiva».

Lei ha realizzato tra l’altro la sede Technogym di Cesena. In una intervista al “Corriere Living” ha dichiarato: «Se faccio una cosa è perché duri nel tempo. Penso alla manutenzione, a cosa potrebbe succedere, a prevenire l’invecchiamento. Un buon progetto dovrebbe resistere almeno trent’anni». I segni dell’architettura nel territorio sono segni forti, quasi permanenti: quanta responsabilità sente nel suo ruolo di architetto e di disegnatore di paesaggi urbani?
«Credo che la “responsabilità” sia parte integrante della nostra professione, in particolare per chi lavora in ambito urbano, che non è fatto di estemporaneità, ma di gesti consapevoli. Pensiamo alla nostra tradizione italiana nei confronti della città, soprattutto nei centri minori: la nostra grande fortuna è avere avuto da sempre questo approccio non solo nel “fare”, ma anche nel “mantenere”. E oggi ci regala città, situazioni, paesi che sono, nel mondo, un grande patrimonio».

Grandi edifici, alberghi di lusso, ma anche pentole, come la sua linea dedicata all’Artusi. Ritiene sia possibile applicare una idea progettuale a ogni tipo di oggetto?
«Certamente, attraverso un approccio consapevole: si può dire che il nostro è un mestiere di ascolto. Ad esempio, nell’ambito della progettazione delle pentole Artusi 2.0, volevo disegnare delle pentole, ma intanto volevo capire ogni funzione, ogni forma, le dimensioni, il materiale... che è sempre legato a come uno chef cucina. Insomma non ho disegnato una pentola con un manico semplicemente perché volevo fare un oggetto: ho disegnato delle pentole con dei consulenti. Quello che mi interessa è il processo, e lo stesso approccio si applica all’architettura. Si può dire che scala e problematiche siano diverse, mentre l’approccio e il metodo simili. Il disegno industriale e l’architettura, per molti aspetti, sono vicini. Disegno prodotti senza cercare l’espressione, bensì cercando risposte; in architettura è più o meno la stessa cosa, lavoro sulla ricerca di una soluzione che un’architettura può offrire».

L’avvento di catene di design a buon mercato come Ikea secondo lei ha migliorato o peggiorato il gusto degli italiani?
«Non è questione di gusto direi, ma di prezzo. Occorre distinguere tra quelle aziende che, grazie a grandi investimenti dal punto di vista industriale, riescono a ridurre il costo garantendo una qualità di buon livello (per quel tipo di costo), e altre che invece propongono solamente materiali scadenti».

Quali sono stati e quali sono ancora oggi i suoi riferimenti, nell’architettura così come nell’arte?
«Io ho avuto la fortuna di avere un professore che mi ha fatto disegnare tutto, Charles Eames. Portava degli oggetti, io li smontavo e ridisegnarli mi faceva capire il processo produttivo. E lì ho avuto una sorta di innamoramento. In giovanissima età mi sono buttato subito in quella scuola di pensiero, per la quale il processo produttivo, la semplicità, il capire come i materiali condizionano il progetto, sono elementi fondamentali».
«Dall’altro lato – continua Citterio – invece c’erano architetti italiani come Giovanni Muzio e Giuseppe Terragni, c’era una logica proto-razionalista anch’essa estremamente interessante, ma sicuramente in questa fase Eames era il mio riferimento. Poi quando vedevo l’architettura di Carlo Scarpa un po’ più da vicino e capivo com’era costruita mi affascinava ugualmente. Il giovane studente capisce il dettaglio, non capisce lo spazio, non capisce la complessità dell’architettura, coglie le cose semplici, per cui innamorarsi del dettaglio, del processo, è più facile. Poi alla fine degli anni Settanta ho iniziato a fare una serie di viaggi-studio. In quegli anni ho visto il lavoro di Louis Kahn in America e a Dacca, ho visto Le Corbusier, ed entrambi sono diventati riferimenti per la mia architettura».

La Romagna, il territorio forlivese in particolare, è piena di simboli e costruzioni di architettura razionalista, una architettura che ha lasciato veri capolavori, però “di regime”. Tanto che qualche giorno fa il “New Yorker” si è chiesto: «Perché così tanti monumenti fascisti sono ancora in piedi in Italia»? Come si può sanare questa dicotomia?
«A mio parere accostare il momento politico all’architettura non dovrebbe essere un’operazione poi così ovvia: il regime è passato ma l’architettura, con esempi anche di qualità, è rimasta, indipendentemente dal pensiero politico che l’ha generata».

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