Fra italiano e dialetto la sfida non è finita

Rimini


SANTARCANGELO. Nelle note biografiche che accompagnano le antologie e gli studi dedicati a Nino Pedretti si legge spesso che egli condusse ricerche linguistiche sul dialetto di Santarcangelo, ma solitamente questo accenno non viene ulteriormente approfondito, sicché pochi sanno quali fossero le ragioni e gli scopi di tali ricerche. Con questo articolo vorrei dare un mio contributo per colmare almeno in parte questa lacuna, pur coi limiti impliciti in un taglio giornalistico, che per forza di cose deve evitare i tecnicismi.
Comincio sottolineando una distinzione che potrà sembrare ovvia, ma che non di rado genera dei malintesi. Mi riferisco al fatto che un’espressione come «studiare la lingua inglese» può essere ambigua: posso studiare l’inglese per poterlo parlare, come fa la maggior parte di coloro che studiano questa lingua, oppure posso condurre uno studio linguistico per determinarne la fonetica, la grammatica eccetera. Insomma, una cosa è parlare in inglese, e altra cosa è parlare dell’inglese.


Un parlante passivo
Ebbene, Pedretti compì entrambi questi studi. Bisogna dire, a questo proposito, che la sua competenza del dialetto era in origine quella di colui che tecnicamente viene definito “parlante passivo”: uno che comprende bene una lingua usata abitualmente da persone che vivono attorno a lui, ma che non la usa. Pedretti sentì quindi il bisogno di perfezionarsi nell’uso del dialetto, per far parlare le “voci” del popolo (da cui il titolo della sua prima raccolta, Al vòusi).
Come dicevo sopra, il perfezionamento nell’uso di una lingua non non è uno studio prettamente linguistico, e l’approfondimento delle ragioni di questa fatica non è di mia competenza. Posso dire solo, restando sul vago, che esse affondano nei molteplici interessi culturali dell’intellettuale Pedretti, nella sua visione del mondo e forse anche nella sua concezione dell’impegno politico.


Scrivere bene il dialetto
Venendo agli studi prettamente linguistici, si può dire che la ragione principale per cui egli li intraprese è legata al desiderio di “scrivere bene” il dialetto santarcangiolese. Chi non si è mai occupato di questo problema tende a pensare che esso sia sentito soprattutto dai linguisti, o comunque da persone puntigliose e pedanti, più attente alle questioni formali che a quelle sostanziali. Lo studio scolastico dell’italiano ci ha insegnato, infatti, ad associare l’ortografia a qualche personaggio severo che ci rimprovera di aver scritto “qual’è” anziché “qual è”. Ma nel nostro caso l’esigenza di “scrivere bene” si pone su un piano assai diverso. Essa infatti sorge nel momento in cui un autore, nel tentativo di usare la grafia dell’italiano per scrivere il dialetto, si rende conto che essa è inadeguata, che ci sono aspetti importanti che sfuggono e non si lasciano esprimere. Ciò accade non perché la grafia dell’italiano abbia in assoluto dei limiti: la grafia dell’italiano va bene per scrivere l’italiano; se essa si rivela inadeguata per scrivere i dialetti romagnoli è perché questi sono profondamente diversi dall’italiano, molto più diversi di quanto può immaginare la persona comune che non abbia mai riflettuto su tali questioni.


Con Baldini e Fucci
Ora, ci sono alcuni autori dialettali, anche molto importanti, che nei confronti di questo problema manifestano una totale e serena indifferenza. Per restare a Santarcangelo possiamo citare, fra gli indifferenti, Tonino Guerra. Ma altri grandi autori nel momento in cui acquisiscono questa consapevolezza ne sono profondamente coinvolti e sentono acutamente il problema. Questo è stato vero per la maggior parte dei santarcangiolesi, e in particolare per Nino Pedretti, Raffaello Baldini e Gianni Fucci.


«Di scritto c’è solo l’italiano»
Nella corrispondenza fra Pedretti e Baldini si trovano non poche discussioni al riguardo. E, proprio in una lettera a Pedretti, Baldini esprime un giudizio memorabile sulla questione della grafia. Scrive: «Di scritto c’è solo l’italiano, lo spazio naturale del dialetto è l’oralità. Quando tentiamo di portare il dialetto nello spazio della scrittura, ci troviamo indotti a riconoscere le norme di leggibilità dell’italiano. Cioè, il dialetto scritto è sempre, più o meno, italianato. E tanto più siamo “negligenti” o solo “disinvolti” o solo “semplificatori” nello scrivere il dialetto, tanto più ne riconosciamo la subordinazione all’italiano. Il dialetto fa di questi scherzi: quanto più “spontaneamente” lo si scrive, tanto più lo si tradisce; a scrivere la lingua che parlavano, impeccabilmente, le nostre lavandaie e i nostri contadini analfabeti, ci vuole studio e fatica».


Fra spontaneità e tradimento
Dicevo che è un giudizio memorabile perché qui Baldini pone una relazione fra la “spontaneità” (con le virgolette) e un tradimento: quella che può sembrare spontaneità (cercare di adattare al dialetto le regole grafiche imparate a scuola) è in realtà un’accettazione acritica (e in gran parte inconsapevole) di quella subordinazione alla cultura dominante in lingua che gli autori dialettali volevano invece superare, o quanto meno rendere problematica.


A Costanza con Schürr
Baldini decise, per varie e complesse ragioni, di farsi carico di questa contraddizione di fondo, senza risolverla. Invece Pedretti cercò più a lungo, e con maggiore impegno, di superarla. Nel tentativo di chiarirsi le idee e trovare soluzioni percorribili, si recò anche a Costanza per incontrare Friedrich Schürr, che all’epoca era il massimo esperto mondiale di dialetti romagnoli.
Non posso aggiungere altro, per i limiti di spazio e anche perché un approfondimento richiederebbe l’introduzione di qualche concetto tecnico.

Per chi volesse approfondire mi permetto di suggerire la lettura dei primi capitoli del mio saggio E’ rèmmal (Verucchio, Pazzini, 2015).


*glottologo, membro del Comitato scientifico per la salvaguardia, la valorizzazione e la trasmissione dei dialetti, Regione Emilia-Romagna

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