«Ho scorticato i marciapiedi di una Roma meno patinata»

Rimini


RIMINI. Un'esigenza. E una passione. È questo il cinema per Stefano Calvagna, romano, classe 1970, che torna nelle sale con il suo ultimo La fuga. Il regista sarà al Multiplex Giometti delle Befane domenica 27 agosto alle 20.30 col protagonista Claudio Vanni.

Per i lettori del Corriere Romagna, presentando il coupon a pagina 6 edizione di Rimini del giornale di sabato 26, la possibilità di assistere al film a 3 euro.

Calvagna, di cosa parla “La fuga”?
«Ho voluto raccontare il disagio di una persona, un ex pugile, colpito da una vita che non ha scelto e a cui ha dovuto adattarsi».

Uno spaccato di vita d’oggi?
«Sì: malasanità, il disagio delle persone che non trovano sostegno, dimenticate dallo Stato. Ho toccato temi complessi, come quello della corruzione, dei “poteri forti”. Il mio cinema non fa sconti a nessuno».

C’è qualcosa di autobiografico nelle storie che racconta?
«Tutto ciò che è nei miei film fa parte di un mio vissuto. Nella Fuga ho scorticato anche i marciapiedi di una Roma meno patinata, come quella che raccontano Moccia o Muccino, ma più vera».

Come si posiziona rispetto al mondo del cinema?
«Il cinema attuale è fatto di temi, non di storie. Uno al cinema andava per sognare, invece oggi non sogna più. Io sono un regista outsider, vivo nella mia zona d'ombra dove riesco a osservare meglio e a stare meglio. Non mi è mai interessato creare prodotti commerciali. Ho sempre ammirato le minoranze».

Le piace lavorare con un particolare gruppo di attori?
«Massimo Bonetti è il mio attore feticcio, come Michael Madsen per Tarantino. Spesso i rapporti nel mondo del cinema sono difficili: c'è molta falsità, opportunismo. Bonetti prima di tutto è un amico, ho sempre avuto un ottimo rapporto di sincerità con lui, ed è merce rara. Gli attori li scelgo io, comunque, non mi lascio consigliare dai casting: vedo già la faccia dell'attore quando scrivo, come per Claudio Vanni nella Fuga”.

È un regista prolifico per essere un indipendente: come fa?
«Faccio due-tre film l'anno ed è un miracolo per un regista-produttore indipendentente. Io amo il mio lavoro, e quando sento l'esigenza di fare un film lo faccio anche senza budget».

Come?
«Con il “love budget”, il budget dell'amore: coinvolgo le persone, le appassiono a un progetto. Per me non fare film è una condizione dura da sopportare. Dopo il film dedicato a Califano, Non escludo il ritorno, sono stato fermo 19 mesi. Questo mi ha permesso di stare più vicino alla mia famiglia».

Qui recita anche suo figlio Niccolò: un caso?
«Niccolò è un ottimo attore. Ha già fatto 12 film e vinto anche premi importanti. È stato il primo bambino a vincere il Premio Biraghi ai Nastri d'argento dal 1946, per due film: Mio papà di Giulio Base e Un Natale stupefacente di Volfgango De Biasi».

Che rapporto ha con i festival?
«Dipende. Alla Festa del cinema di Roma in cui scartarono il film su Califano inscenai una protesta durante la conferenza stampa di presentazione. A me non importa della critica: ho sempre accettato giudizi e pregiudizi, ma stavolta mi sono sentito preso in giro. Lo stesso Marco Müller, presidente del festival, mi aveva detto che Non escludo il ritorno era di qualità ma che non poteva essere preso. Avevo rinunciato a Venezia per portarlo a Roma, dopo la morte di Califano. Alcuni critici, come Francesco Alò sul Messaggero, hanno scritto che avevo ragione a protestare».

Come è andata a finire?
«È stato mio figlio a portarmi sul red carpet di Roma: lui era invitato e io l'ho accompagnato. Poi il film su Califano è andato a Cannes nel 2015».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui