Lasciate che la carne si abbandoni

Rimini

Maschere, feste, scherzi e interminabili abbuffate sono passaggi obbligati di un rito, quello di Carnevale, che ogni anno si ripresenta e assecondiamo. Diffusosi come rito di passaggio dall’inverno alla primavera in epoca pagana, il Carnevale rappresentò un periodo di festeggiamenti e banchetti, spesso smisurati e incontrollati. Fu la Chiesa a tentare di porre un freno a quei vizi della gola e della carne che, secoli prima, costituivano il fulcro dei Saturnalia romani e dei culti dionisiaci.

Di origine religiosa è la stessa parola Carnevale: deriva, infatti, dal latino “carnem laxare”, in italiano volgare poi divenuto Carnasciale, e significa “abbandonare la carne”. Il clero cercava di contenere gli slanci del popolo, ancora molto legato a questa ricorrenza contadina precristiana, imponendo un digiuno forzato – niente carne e condimenti derivati da grassi animali – fino a Pasqua. Nell’antica Roma la settimana in cui si omaggiava il dio Saturno rappresentava il momento più concitato del Carnevale, durante il quale venivano stravolte le regole, l’ordine era rovesciato e vi era una sorta di uguaglianza tra servi e padroni che sedevano alla stessa tavola e amavano le stesse donne. Sintetizza questo atteggiamento il detto latino, molto usato nel Medioevo, Semel in anno licet insanire – una volta all’anno è lecito impazzire – indicando la possibilità di fare ciò che si voleva, spesso con la complicità di travestimenti e maschere. I festeggiamenti erano una “furbizia” politica, una valvola di sfogo per gli schiavi e i poveri lasciati liberi di eccedere e di sentirsi simili ai potenti almeno per alcuni giorni. L’usanza di travestirsi è figlia di riti magici del Paleolitico, quando per allontanare gli spiriti maligni gli stregoni si dipingevano il volto o usavano maschere dai colori scuri e adornate con piume e pendagli. La volontà di celare la propria identità dietro a una maschera si conservò presso i Romani che, durante i Baccanali, scorrazzavano per le strade e, come erano soliti fare anche i Celti, ne approfittavano per improvvise scappatelle. In quei giorni alcuni popolani assumevano le sembianze di signori, altri preferivano trasformarsi in fantasmi o diavoli dando vita a vere e proprie sfilate in costume sfociate nelle attuali parate. Riti apotropaici, rievocazioni storiche e carri allegorici sono la naturale conseguenza delle scorribande messe in atto dal giovedì grasso al martedì che precede le Ceneri. Dal Quattrocento la Chiesa utilizzò il pugno di ferro per scongiurare il protrarsi di festività del genere. Moralizzatori come Savonarola furono mandati in giro per l’Italia con la minaccia della dannazione eterna per chi non avesse smesso con tali comportamenti pagani. Di matrice politeista e miscredente anche il rituale del fantoccio bruciato, pratica immancabile che chiudeva gli sfrenati divertimenti, rappresentando simbolicamente la fine dell’inverno e della morte dei campi e il saluto alla primavera e alla fecondità delle messi. Di quegli antichi riti si conserva lo spirito goliardico, il desiderio di poter essere qualcun altro, il pretesto per lasciarsi andare a qualche peccato di gola, incoraggiati dalla proverbiale certezza che a Carnevale non solo ogni scherzo ma anche ogni travestimento e ogni pranzo vale.

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