«Mi pento di aver scritto Gomorra? Sì, ogni giorno, ma lo rifarei»

Rimini


Borghese, meridionalista, ateo, controverso. Affascinato dagli anarchici come quell’Errico Malatesta che proprio a Rimini, nell’agosto 1872, contribuì alla frattura col marxismo. Ha 37 anni, e da 11 anni vive in fuga. Una laurea vera in Filosofia e altre ottenute honoris causa, una passione per il giornalismo d’inchiesta. Una città, Napoli, da cui scappare e in cui tornare, almeno col pensiero. Roberto Saviano nei prossimi giorni sarà in Romagna per presentare “La paranza dei bambini”, libro che segna per lo scrittore il passaggio alla fiction, pur senza abbandonare il tema della camorra.

Saviano, all’uscita di “Gomorra” lei per gli italiani divenne un eroe. Undici anni dopo, molti (soprattutto tra i suoi concittadini, a cominciare dal sindaco Luigi De Magistris, con cui si sono registrati scontri “epici”) non le perdonano di avere sollevato il velo sulla cancrena rappresentata dalla camorra, accusandola addirittura di lucrare sui mali dell’Italia. Come risponde a queste critiche?
«È esponenzialmente più facile accusare chi racconta, del resto ognuno sceglie il proprio nemico a seconda dei propri obiettivi. Se io scrivo la reazione è immediata: hai diffamato, ti arricchisci sulla camorra, racconti quello che già si sapeva. Se ci sono morti, agguati, sparatorie, indagini eclatanti, la politica tace. Questo dovrebbe far riflettere».
Oggi la sua vita è cambiata per sempre. Non è più un giornalista e scrittore, o non solo, ma è diventato un “caso”: costretto a vivere all’estero, sotto scorta, in perenne pericolo di vita. E tutto quello che dice o scrive diventa oggetto di polemica politica. Ha pagato un prezzo altissimo per aver osato dire la verità, e anche per avere avuto molto successo nel farlo. Si è mai pentito di avere scritto “Gomorra”? Lo rifarebbe?
«Ogni giorno mi pento di aver scritto “Gomorra”. Lo riscriverei, ma con maggiori cautele».
L’accusano di contribuire, con i suoi libri, a diffondere una cattiva immagine del Sud Italia. Crede sia vero? Bisognerebbe dunque raccontare solo il bello?
«A ciascuno il suo racconto. La descrizione del bello non genera contraddizioni, non impone una presa di posizione, non invita ad agire. È certo più comodo, ma non è la mia strada, non è la strada che io voglio percorrere».
“La paranza dei bambini” è il suo ultimo libro, edito da Feltrinelli. Ancora una storia basata su fatti veri (come le oltre 1600 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Napoli nell’ambito dell’inchiesta dei pm Woodcock e De Falco proprio sulla “Paranza dei bambini”: una indagine conclusasi con 43 condanne, quasi tutti ragazzini) ma raccontata in forma letteraria. Come mai questo cambiamento?
«Il passaggio dalla narrativa non fiction alla fiction pura è stata un’esigenza. Questa volta, pur partendo ancora da materia viva, reale, da fatti accaduti, volevo far parlare i paranzini, volevo dar loro voci proprie e intercalari. Volevo rendere palesi i loro pensieri, i loro desideri. Sapevo quali fossero, li avevo letti, appresi, interpretati dalle tante intercettazioni ambientali e telefoniche, ma volevo far parlare loro direttamente e riempire i vuoti. Questo solo la fiction pura te lo consente: è una libertà che non ti dà nessun altro genere letterario. E questa volta non volevo rinunciarci».
Fiction o giornalismo? Il fatto di “romanzare” la verità è un modo per farsi ascoltare in modo più ampio e trasversale, come il successo dei suoi libri del resto dimostrerebbe (“La paranza” è arrivato al primo posto in classifica in soli 4 giorni), o invece rischia, come sostengono alcuni, di inficiare il suo lavoro giornalistico?
«Non credo che infici il lavoro e la ricerca giornalistica, piuttosto ritengo che sia un modo per rendere fruibile una materia che, in altra forma, resterebbe appannaggio di addetti ai lavori. L’inchiesta dei pm Woodcock e De Falco, per la sua importanza e per il rigore con cui è stata condotta, meritava di essere conosciuta».
Lei fa spesso incontri con i ragazzi, e la sua esperienza televisiva ci insegna che è un ottimo divulgatore. Ha la sensazione che il suo lavoro serva a cambiare davvero le cose, o qualche volta subentra lo sconforto di fronte allo stato delle cose?
«Ho la sensazione che il contatto diretto, occhi negli occhi, parole che incontrano parole, sia un modo, forse l’unico, per cambiare le cose. Credo nei rapporti personali, credo nello scambio e non sono assolutamente incline allo sconforto».

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