Luigi Lo Cascio: «Ecco il mio Otello»

Rimini

CATTOLICA. Luigi Lo Cascio sembra un po’ il Renzi del teatro italiano. Eh sì, perché uno che si permette di proporci una sorta di sequel dell’Otello di Shakespeare (per giunta scritto per metà in siciliano), delle due l’una: o farà la rivoluzione, o si rompe l’osso del collo.

Attraverso l’uso dei versi e con una scrittura in cui la lingua italiana e quella siciliana si fronteggiano a colpi di endecasillabi, il plot si presenta modificato già nella sequenza temporale. Come spiega l’autore: «Si comincia dalla fine del testo di Shakespeare. La tragedia di Otello è già compiuta. La prima preoccupazione di chi resta è giustiziare Iago. Un soldato che ha assistito agli avvenimenti, non sopportando le distorsioni e i travisamenti con cui la vicenda rischia di venire tramandata, racconta la storia del suo amato generale. Nella sua versione, la storia di Otello è la storia di un uomo e del suo atto scellerato dovuto alla differenza fondamentale che talvolta, invece di generare un incontro tutto da costruire in virtù del desiderio, può spalancare un varco da cui può irrompere un odio smisurato. Questa differenza è quella tra uomo e donna».

Il noto attore, qui anche regista e autore del testo, sarà questa sera al Teatro della Regina di Cattolica (e poi dal 27 al Bonci di Cesena), per proporre in anteprima questa nuova pièce che debutterà ufficialmente in marzo a Catania, nel teatro stabile che l’ha prodotta insieme all’Ert.

Lo Cascio, un ritorno al primo amore (quello del suo saggio all’Accademia), Shakespeare: dopo Amleto, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate. Questo però non l’autorizza a fare un sequel dell’Otello e per giunta in siciliano…

«Parte come un sequel, per poi entrare dentro la questione shakespeariana. È un tradimento ma non un travisamento del bardo. Il mio testo è un piccolo contributo per tornare all’Otello facendo una strada più lunga. Una storia d’amore tra Otello e Desdemona, che è un testo gigantesco, colossale, un carico enorme... E invece noi lo facciamo con quattro attori. E come si fa? Facendo delle scelte. La scrittura tiene conto dei nostri limiti, che sono molto utili: sono stato costretto a concentrarmi su quello che mi stava più a cuore. E tutto quello che fa ostacolo al gesto che Otello compie, l’ho sacrificato».

Il suo testo si pone due domande che le rigiro: è solo una serie di parvenze e malintesi il nostro universo di relazioni? Davvero anche l’amore è puro abbaglio? Nelle sue note di regia pare di scorgere anche un monito, una critica all’atteggiamento maschile verso la donna, ancora oggi troppo spesso vista come proprietà privata...

«Sono questioni enormi, neanche io sono arrivato a una conclusione definitiva. La domanda fondamentale è come mai un uomo che ama, improvvisamente uccide. Non amava davvero? Era un amore equivocato? E il succo non è la gelosia che è sempre amore, spesso l’alimenta. No, qui è odio distruttivo, qualcosa che si rompe e prorompe nella furia dell’annientamento. L’uomo contemporaneo in questo senso, troppo spesso non accetta la mancata corrispondenza millimetrica dell’amata all’ideale che ne ha...».

Questa serie di anteprime sono per mettere a punto la messa in scena prima della première di Catania?

«I classici sono un vantaggio-garanzia, funzionano. Un testo che nasce adesso invece ha certo bisogno di un periodo di confronto con il pubblico per arrivare a una stesura definitiva. Ma non è detto che questa sia migliore di quella iniziale. Può essere quindi ancor più interessante vedere lo spettacolo alla nascita, quindi viene al mondo con il massimo della sua potenza».

Perché ha scelto per sé il ruolo di Iago e non di Otello?

«Dovevo fare uno spettacolo con Vincenzo Pirotta, lo conosco da 20 anni. Due sono i protagonisti, Otello e Iago, e già nel ’700 i due attori si scambiavano i ruoli. Ma importante qui è anche il soldato che decide di raccontare la storia senza luoghi comuni. Il moro cattivo pesa sulla lettura di Otello, è uno diverso da noi che è facile additare. Invece il mio Otello è bianco e parla in siciliano, come Iago; qui la vera straniera è Desdemona che parla italiano...».

Si ha l’impressione oggi in Italia che il teatro sia spaccato a metà: i grandi nomi preferiscono i classici con letture acritiche, quelli che portano pubblico e trovano facilmente i produttori, ma non aggiungono niente di nuovo; e dall’altro un teatro di ricerca avanzatissimo, come quello di Castellucci della Sanzio, che però si dibatte in mille problemi economici… Lei sembra voler andare oltre la classificazione da “Meglio gioventù” del teatro italiano e cercare strade più impervie, ma forse più profonde…

«Ognuno fa quello che è. Io voglio fare cose che mi piacciono come spettatore, non farle per piacere ma solo quelle in cui credo, che mi appassionano. Voglio sapere cosa producono in me, quali questioni lasciano aperte? C’è la massima onestà da parte mia nel porgere allo sguardo degli altri quello che è interessante per me».

La cultura in generale soffre di scarsa attenzione o – per contraltare – di un’attenzione eccessiva quanto censoria e morbosa. Un consiglio per il neo ministro Franceschini?

«I ministri della Cultura devono difendere il nostro lavoro. Spero che abbia la forza di fare capire la crucialità della cultura e favorisca il coalizzarsi strategicamente degli italiani per la nostra identità di uomini».

Il cinema d’autore italiano sembra aver ritrovato la strada della denuncia sociale con il racconto crudo della miserrima realtà in cui stiamo vivendo: parlo de “La grande bellezza” ma anche de “Il capitale umano” a cui lei ha preso parte. Lei stesso con il suo esordio alla regia, “La città ideale”, sembra suggerire la strada di un nuovo radicale neorealismo…

«È stata una esperienza aurorale, era la prima volta che facevo il regista. Non mi sono posto il problema a quale genere appartenere. Ho scritto una sceneggiatura a partire dalle mie passioni di lettore e spettatore. Senza ricerca di stile o pertinenza. Una storia che fa pensare a Elio Petri. C’è una corda più filosofica, un tentativo di comprensione della realtà ma senza avere paura di una corda più folle e legata al sogno all’incubo, alla surrealtà, alle parti oniriche. L’interiorità era la questione che mi stava a cuore. Ma venendo a contatto con l’ambiente esterno, spero abbia anche una sua incidenza politica».

Otello è prodotto anche da Emilia Romagna Teatri.

«E li ringrazio. È una cosa nata con Cesena, con cui ho un rapporto forte, soprattutto con l’ex assessore Daniele Gualdi che ha inventato tante cose e oggi è presidente dell’Ert. Ho fatto tante produzioni anche del Bonci. Per me la Romagna significa ritorno a casa».

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