Il sociologo di confine che invitava a giocare

Rimini


RIMINI. La recente scomparsa di Zygmunt Bauman, il teorico della “società liquida” come spesso troppo superficialmente viene definito, ci offre l’occasione per ricordare lo studioso riminese Alberto Melucci che ci ha lasciato prematuramente il 12 settembre 2001 all’indomani della data epocale delle Torri Gemelle. Anche Bauman era presente al grande convegno di sociologi organizzato dall’Università Statale di Milano nell’ottobre 2002 per ricordare e onorare il collega.
Nel suo intervento commentò in particolare un suo testo pubblicato nel 1991 dall’editore Feltrinelli, “Il gioco dell’Io. Il cambiamento di sé nella società globale”, cambiamento che, secondo Melucci, è generato da una tensione fra «un eccesso di possibilità e messaggi» capaci di allargare quasi all’infinito «le esperienze cognitive ed affettive» e la nostra appartenenza naturale, biologica, che è parte «di un’ecosistema compreso fra nascita e morte». Privo di «un’identificazione stabile l’Io ha gioco fra diverse ed opposte opzioni». Per non perdersi, non c’è allora che da «imparare a giocare».
“Nomadi del presente” ovvero liberi dallo spazio e dal tempo è un’espressione contenuta nel libro che Bauman apprezza e approfondisce ricostruendo la storia filosofica del termine “self”, riconoscendosi nella definizione che ne dà Melucci come «l’abilità di riconoscere ed essere riconosciuti», quasi parallela a quella che dà della “comprensione” Ludwig Wittgenstein: «sapere come andare avanti». Identità e comprensione dunque racchiudono uno stesso significato e messaggio: sono relazioni sociali. Un’identità all’infuori dell’interazione, dice Bauman, è come «chiedersi che cosa fa il vento quando non soffia o che cos’è un fiume quando non scorre».
Le relazioni sociali, nel gioco delle differenze, definiscono le identità personali, ma anche le relazioni fra culture che, secondo Melucci, oggi spesso rischiano lo scontro se non accettano la sfida di «esporsi alla contaminazione che gli altri sempre rappresentano per noi». Negare l’interdipendenza tra individui, popoli e culture, «può farsi solo a prezzo di una violenza estrema cui soccombe anche chi la esercita... per continuare a essere insieme occorre anche decidere di fare la propria parte».
Questi sono alcuni dei temi che Alberto Melucci ha affrontato, quasi profeticamente, nella sua ricerca di sociologo di confine, di formazione filosofica, ma aperto alla psicologia del sé, alle discipline scientifiche e umanistiche e, da ultimo, alla pratica della poesia in cui ha cercato di tradurre in versi i suoi pensieri sulla società contemporanea.
Importante è stata anche la sua opera di docente e formatore appassionato con allievi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti, all’America Latina, al Giappone. Una persona che ha onorato la città di Rimini e che meriterebbe gli fosse dedicata una via o meglio una scuola, istituzione in cui fermamente credeva.

CHI ERA
Alberto Melucci, nato a Rimini nel 1943, padre di due figlie, è morto nella sua città il 12 settembre 2001. Molto legato a Rimini, dove aveva i genitori e numerosi amici di vecchia data, vi tornava periodicamente. Aveva frequentato il liceo Classico, contemporaneamente militando nell’Azione Cattolica riminese, per poi iscriversi alla facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Dopo la laurea aveva approfondito i suoi studi in Francia alla scuola di Alain Touraine. Era professore ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Milano, dov’era anche docente presso la scuola di specializzazione in Psicologia clinica. Aveva insegnato anche in prestigiose università europee, americane e asiatiche, pubblicando una ventina di opere, non solo saggi per addetti ai lavori ma anche volumi divulgativi di facile accesso. Recentemente aveva dato alle stampe due libri di poesie, in dialetto e in lingua, il secondo dei quali vanta una prefazione di Lalla Romano. Nei suoi studi, Melucci si era occupato molto dei movimenti culturali e sociali della nostra epoca, con particolare riferimento ai bisogni e all’azione collettiva. Tra i suoi scritti più noti, Passaggio d’epoca. Il futuro è adesso edito da Feltrinelli nel 1994, in cui analizzava le trasformazioni che sui nostri modi di fare e pensare hanno comportato i cambiamenti culturali. E indagava intorno alle trasformazioni che tutto ciò provoca nella nostra vita quotidiana. Per arrivare alla conclusione della necessità di una grande assunzione di responsabilità, rispetto al passato, di fronte alla grande potenza di auto-distruzione che l’uomo dimostra. Il suo pensiero laico si traduceva in uno sguardo quasi filosofico.
Altro argomenti di cui si era occupato il professore riminese la globalizzazione, ma lo aveva fatto in tempi per così dire non sospetti, nel 1991, con il saggio Il gioco dell’Io. Il cambiamento di sé nella società globale: un libro premonitore in cui si anticipano riflessioni fatte proprie da tanti studiosi anni dopo. Così come fortemente anticipatore è stato anche il volume L’età dell’oro. Adolescenza tra sogno ed esperienza, pubblicato nel ’92 e scritto a quattro mani con la moglie Anna Fabbrini.

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