«La maggioranza è tiranna ma nell’arte ci sono anticorpi»

Rimini

CESENA. Per fortuna c’è il Premio Malatesta Novello a riportare a casa Romeo Castellucci. Domenica 20 novembre il regista e cofondatore della Societas Raffaello Sanzio ha ricevuto il riconoscimento pensato per i cittadini che si sono fatti onore nel mondo. Con lui anche Fabio Zaffagnini inventore del “Rockin’ 1000” e alla memoria l’archeologa Sara Santoro, scomparsa di recente.  
«Non farò come Bob Dylan», aveva annunciato Romeo nel teatro di casa. In quel Comandini sede della compagnia fondata nel 1981 con Chiara Guidi, Claudia Castellucci e Paolo Guidi sta ultimando due nuovi spettacoli ispirati a una cultura americana. È atteso il 14 dicembre ad Anversa il debutto de “Il velo nero del pastore” con Willem Dafoe.
«È un progetto speciale – precisa Romeo Castellucci –; costruisco in modo nuovo un lavoro che avevo interrotto, mantengo solo il titolo; era importante per me il riferimento letterario di Nathaniel Hawthorne (1804-1864)».
Qual è il tema?
«Racconta di un pastore di una comunità puritana del New England che un giorno si presenta ai fedeli col volto coperto di nero. Non se lo toglierà più, neppure in casa, né spiegherà il perché, gettando nello scompiglio la comunità. È una metafora che spinge a farsi domande, si è liberi di ipotizzare qualsiasi ragione, ma senza avere risposta. È curioso che la novella fu ispirata da un fatto vero».
Come è avvenuto l’incontro con Willem Dafoe? (l’attore di “Platoon” e del recente “Pasolini” di Abel Ferrara).
«È stato lui a cercarmi, aveva visto i miei lavori. Dafoe cominciò con il teatro. È molto bravo e ha una sensibilità vicina alla mia. Mi ha scritto; ci siamo incontrati e in quel momento mi è sembrata l’occasione giusta per riprendere “Il velo nero del pastore”. Dafoe ha subito condiviso l’idea. Lo spettacolo si svolge in una chiesa; lui si muove vestito da pastore, con il volto coperto, solo la bocca è libera, secondo la descrizione del racconto».
Al testo collabora anche Claudia Castellucci.
«Nella novella di Hawthorne c’è un frequente richiamo al sermone del pastore, ma senza che venga scritto. Claudia lo ha scritto. Ha pure composto due dialoghi de “La democrazia in America”; lei è la penna della Societas, stimo tanto la sua scrittura, e lo dico nonostante sia mia sorella».
Ha citato “La democrazia in America” atteso al debutto nel marzo 2017, ancora ad Anversa.
«Con il teatro DeSingel c’è un antico e intenso rapporto. È uno dei grandi produttori e con noi crea una operazione forte accogliendo entrambe le novità».
Da cosa nasce questa sua “democrazia” parola più che mai sulla bocca di tutti in questi giorni?
«Nasce da un saggio di Alexis de Tocqueville (1805-1859), filosofo e giurista francese che se ne andò in America per studiare il sistema della democrazia. Mentre in Europa si stava riformulando, dopo la caduta delle aristocrazie. La sua analisi politica funziona ancora oggi, anche in seguito alle elezioni di Trump».
Spettacolo insomma, quasi “profetico”.
«Una coincidenza incredibile! Non saprei dire come è avvenuto, è un titolo su cui sto riflettendo da tanto».
Quali sono gli elementi più significativi?
«De Tocqueville parla dell’individualismo dell’uomo americano, del concetto d’impresa, del denaro come premio divino; e con intuizione incredibile scrive della tirannia della maggioranza. “Se mi schiaccia la testa una persona o mille persone, qual è la differenza, sono sempre privato della libertà”. Sostiene che anche nella democrazia si annida il pericolo della tirannia, che è quello che è successo. Analizza i vari aspetti della società americana; dalla geografia dei popoli ai neri, alla condizione degli schiavi».
Quali per l’autore le radici del sistema americano?
«Per De Tocqueville il concetto di legge, di democrazia, di convivenza civile deriva dal “fondamento puritano” ("the puritan foundation"); vede cioè nei principi della democrazia gli stessi che animavano le prime comunità dei puritani, dei “pellegrini” giunti dall’Inghilterra, frangia estrema del calvinismo. Secondo De Tocqueville lo scheletro di questa democrazia, che non ha niente a che fare con la nostra, di derivazione greca, nasce in seno a quei piccoli villaggi che diventeranno Stati. Anche la severità della natura del paesaggio americano per lui ha formato questo popolo. Il mio spettacolo, pur non illustrativo, nasce da tali suggestioni».
Cosa più l’attrae di questa cultura?
«La cultura americana è interessante; tanti artisti, scrittori, pittori, registi di straordinaria potenza, rappresentano l’anticorpo di una cultura estremamente dura e arida. La cultura puritana è interessante per contrasto, perché ha generato anticorpi di una potenza sconvolgente. Sullo sfondo di questa durezza nascono scrittori come Hawthorne, come Melville che adoro, come Faulkner. Si formano anche perché la cultura americana è priva di storia, quindi rende possibile inventare dei mondi. Noi al contrario ci portiamo addosso una zavorra, che sono la memoria, una cultura immensa, l’origine della cultura umana. Gli americani hanno un concetto molto diverso di storia, gli artisti possono avere meno zavorra, meno complessi e, almeno fino a questo momento, hanno potuto esprimere libertà mentale».
Dice che il suo “non è uno spettacolo politico”, ma è inevitabile chiederle una opinione sull’attuale momento.
«C’è un cambiamento in corso. Sta avvenendo una trasformazione, forse troppo rapida, per la quale non c’è tempo di essere vigili, di avere coscienza, di scegliere, le cose avvengono senza una riflessione razionale. Nei concetti di convivenza sociale, di democrazia, manca la riflessione, tutto è molto istintivo. Le emozioni sono indotte ad arte, c’è una idiosincrasia, un rapporto quasi malato con la comunicazione, sempre più veloce, ma sempre più vuota, dannosa».
Mentre affronta temi americani, quale idea nutre di questa Europa?
«Credo che diventerà più forte con il nuovo presidente americano. Siamo obbligati, non abbiamo più protezione, dovremo usare unghie e denti per formarci come identità. Credo moltissimo nell’Europa, la nostra cultura è europea, siamo fatti di questa pasta, non è possibile negarla. Tante nazioni insieme sono una ricchezza. Vivo già in questa dimensione, l’Europa è il mio Paese».
E come, da europeo, le appare l’Italia?
«Come un buon Paese che, pure imperfetto, funziona, la gente non se ne rende conto. Forse dovrebbe uscire per capire come vivono gli altri. La nostra paura è pilotata ad arte, la campagna elettorale di Trump è stata vincente perché fondata sulla paura. Io certamente voterò sì (al referendum, ndr)».
Come si sta trasformando il suo teatro?
«Ho un lavoro sempre più denso nel teatro musicale; affronto le opere dal libretto, la musica è l’emozione. Quando si riesce a trovare un’immagine esatta, aritmetica, con il suono, allora tutto, orchestra e spettacolo, diventa di estrema potenza, un’unica onda emotiva».
Dall’unicum “Societas Raffaello Sanzio” del 1981, all’attuale “Societas”. Come si è trasformata la compagnia?
«Intanto ci chiamiamo ancora Societas, siamo insieme nel Comandini ma agiamo con tre distinte visioni creative. Condividiamo il luogo, l’economia, parte dell’organizzazione, una concezione comune del teatro. Ciascuno di noi ha individuato un ambito specifico e anche questa è una ricchezza. Chiara e Claudia sono più libere di esprimersi, non schiacciate dall’esigenza di creare spettacoli più grandi. Poi, come è accaduto, non è escluso che io collabori con loro. Un lavoro a tre? Non si può mai sapere, ma non sarebbe in ogni caso volontà di restaurare».
Il Comandini resta il riferimento?
«È importantissimo questo luogo, soprattutto per le nuove generazioni; vi passano tanti giovani, è vitale, si creano esperienze, è spazio aperto per giovani artisti e compagnie. È un luogo di pensiero e di pratica proprio perché io, noi, crediamo molto nel teatro come possibilità di stare insieme, di leggere il mondo».
C’è chi considera il suo e vostro un teatro troppo autoreferenziale.
«Non è vero, tutto il polverone attorno a certi miei spettacoli (“Sul concetto di Volto nel figlio di Dio”, “Orestea”) c’è stato perché focalizzavo temi che riguardano tutti. E poi cosa si intende per autoreferenziale? Avere uno stile, un linguaggio? È anche il destino di ogni artista; Rothko, Mondrian, Caravaggio erano autoreferenziali? Sì, e va bene così. Carmelo Bene era autoreferenziale? Certo, ed era un gigante».
Quale lavoro si porta più dentro?
«“Amleto” nei primi anni Novanta ha significato moltissimo per me. Buttai via tutto, il rapporto era con un attore solo, toccai corde profondissime che mi hanno molto coinvolto, e poi ero disposto a tutto, non mi preoccupavo del risultato. Forse in questo senso è lo spettacolo più libero».
Da tempo i suoi lavori non si vedono a Cesena.
«Eh, non so; mi dicono che sono cari ma non è vero. È un rapporto strano quello che ho sempre avuto con la mia città, e con l’Italia in genere».
Ora però Cesena le ha consegnato un premio “glocal” come è il Malatesta Novello.
«Sono grato, ci tengo molto; mi sento legato a questa mia città e una volta fuori amo parlarne. E sono ancor più contento perché Malatesta Novello è l’artefice della biblioteca, un gioiello d’Europa, unico. Quando i miei amici sparsi per il mondo vengono a Cesena, li “obbligo” a visitare la biblioteca. È un grande orgoglio per me; ed è, se vogliamo, un’altra immagine della democrazia, in quanto prima biblioteca pubblica, aperta a tutti. Ne vado fiero».
Che farà nel 2017 oltre ai citati debutti?
«Sto lavorando a più regie contemporaneamente; a una “Giovanna d’Arco al rogo” di Honegger per l’Opera di Lione, a “La zattera della Medusa” per l’Opera di Amsterdam su musica contemporanea ispirata al quadro di Géricault, e poi a “Il primo omicidio” opera barocca straordinaria di Scarlatti su Caino e Abele, per l’Opera di Parigi; c’è anche un “Flauto magico” a Bruxelles, “Salomè” di Strauss per il Festival di Salisburgo. Devo pensare a rallentare, un ritmo così non lo reggo».
E una volta alleggeritosi, cosa le piacerebbe fare?
«Un lavoro diverso, nel cinema, è un desiderio che ho da molti anni. Prima però devo fermare tutta questa macchina».

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