Gabriele Lavia: "Ecco il mio Pirandello"

Rimini

CESENA. Fa ritorno al teatro Bonci di Cesena Gabriele Lavia, interprete fra i più amati dal pubblico. Dopo la sua ricercata messa in scena de I pilastri della società di Ibsen nel 2014, si ripresenta con l’apparentemente più facile Pirandello, quello de L’uomo dal fiore in bocca, spesso affrontato con superficiale improvvisazione da attori più e meno capaci. Va in scena questa sera e domani alle 21. Al fianco di Lavia c’è il giovane Lorenzo Terenzi, con scene di Alessandro Camera. È un testo che sembra strizzare l’occhio al mondo della scuola che lo studia, tale da renderlo un pezzo conosciuto alle orecchie.
Per Gabriele Lavia, origini siciliane come Pirandello, questa novella è al contrario una delle più complesse della storia del teatro e l’affronta con una lettura inedita. Lo spettacolo è anche il secondo capitolo di una personale trilogia pirandelliana di Lavia; dopo I sei personaggi in cerca d’autore e l’attuale L’uomo dal fiore in bocca, l’anno prossimo presenterà I giganti della montagna.
Lavia, il suo spettacolo I pilastri della società di Ibsen è sembrato coraggioso; questo Pirandello de L’uomo dal fiore in bocca lo sembra meno. O no?
«No, L’uomo dal fiore in bocca è uno spettacolo molto, molto complesso e costruito. Non ha nulla a che vedere con le messe in scena che nella nostra tradizione si sono alternate. Con un grande attore che “caca perle” e un signore che lo ascolta al tavolino di un caffè. No. Il mio è uno spettacolo molto complicato, difficile. Il sottotitolo “E non solo” ne è la chiave di lettura. Da una decina d’anni mi frullava nella mente».
In che modo lo trasforma?
«Il testo di Pirandello tratto dalla novella Caffè notturno con sottotitolo “La morte addosso”, rimane l’ossatura; io ne rivesto la drammaturgia con pezzi di novelle di Pirandello che afferiscono, direttamente o indirettamente, al tema centrale, che è la morte e la donna».
Quale idea le accompagna?
«La morte e la donna in Pirandello sono due figure del profondo; non dell’esistenza reale».
Desiderava omaggiare l’autore?
«Anche; l’anno prossimo, 150° anno della nascita di Luigi Pirandello, vorrei realizzare I giganti della montagna e La favola del figlio cambiato, nello stesso spettacolo. Di questa mia trilogia, L’uomo dal fiore in bocca è comunque lo spettacolo più difficile e più delicato».
Il suo intento è di offrire una interpretazione particolare per il pubblico?
«Ah, non saprei, io non sono un attore, sono un regista che fa l’attore. Voglio solo raccontare, bisogna vederlo».
Perché Pirandello?
«Lo considero il più grande autore di tutti i tempi, ha scritto cose che nessuno potrà più imitare. Bastano I sei personaggi a porlo al di fuori e al di sopra di tutti gli altri. In fondo l’Amleto di Shakespeare, Il gabbiano di Cecov, è come se fossero l’Orestea. C’è sempre in questi capolavori una storia familiare, una madre che si chiama Clitennestra o Arkadina o Gertrude. C’è un figlio orfano che si chiama Costantino o Amleto o Oreste. Qua invece no; Pirandello esce fuori da questi paradigmi».
Che dire della incomunicabilità?
«L’incomunicabilità resta topos fondante. Forse L’uomo dal fiore in bocca può comunicare perché ormai si è tolto tutto. La perdita della vita è una perdita simbolica, alle volte anche noi siamo svuotati e ci riempiamo con le vite altrui. Questa è la ragione per cui hanno successo certi giornali orribili da “Vero” a “Novella duemila”. Servono a riempire di storie banali l’esistenza di persone morte, con vuota esistenza».
Sente che il Bonci, dopo tanti spettacoli, un po’ le appartiene?
«Moltissimi anni fa ebbi la fortuna di provare al Bonci Il gabbiano di Cecov (ottobre 1979). Cesena è quindi una città che amo molto, e il Bonci è un teatro magnifico, ogni volta il pubblico mi ha dimostrato il suo affetto. Sarebbe bello anche provare, allestire a Cesena, ma oramai non si usa più. Il teatro non appartiene più alla storia della nostra società. Il teatro può fare forse “epoca”, ma non fa più la storia. Non morirà mai, ma con l’avvento di Internet non è più centrale. Una volta lo era, anche se per pochi».
Cosa richiede?
«Il teatro ha un appeal diverso, necessita di un impegno, non di un disimpegno. Il mondo contemporaneo ha troppi impegni e non vuole andare a teatro per impegnarsi a; vuole essere sopraffatto da: dalla musica, dal casino, dal rumore, dal contatto fisico».
È contento che sua figlia Lucia abbia intrapreso una carriera teatrale?
«Lo sono, se è contenta lei. In particolare ha un talento fuori dal comune, Lucia è un’altra storia».
Ha ricordi dei suoi ritorni a Cesena?
«Mah; vengo per fare il teatro, me ne sto chiuso in albergo e alla sera vado in teatro. Mi piace passeggiare così, con leggerezza, andare a trovare i miei vecchi baristi, scambiare qualche chiacchiera. Anche con il barista del teatro Bonci».
Info: 0547 355959

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