Ma dove sono le radici di Fellini?

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RIMINI. C’era bisogno di un altro libro su Rimini e Fellini? Molto s’è già detto e scritto: articoli, saggi, romanzi, guide... Lo stesso Federico raccontò, negli anni Sessanta, il suo rapporto conflittuale con il borgo natìo nel saggio Il mio paese, vero prodromo di Amarcord, il film in cui esplode e si esalta nel regista il contraddittorio legame con il passato.
Ma Le radici di Fellini romagnolo del mondo, in uscita in libreria, è forse davvero quel tassello che mancava nella sterminata bibliografia felliniana. Lo ha scritto Gianfranco Miro Gori, avvalendosi di due riconosciute competenze: quella da cinefilo e fellinologo (è, tra le altre cose, il fondatore e l’ex direttore della Cineteca di Rimini, ma anche l’animatore di storici festival come Riminicinema e, insieme a Piero Meldini, Alberto Farassino e Fabrizio Grosoli, l’ideatore del fu premio Fellini), e quella di studioso della cultura e del dialetto romagnoli (oltre a scrivere poesia in dialetto sammaurese, si è occupato di Giovanni Pascoli e Secondo Casadei).
Insomma, questo libro poteva scriverlo solo lei.
Lui ride: «Sì, in effetti penso di essere il più grande esperto di questa precisa combinazione... ma molti altri, presi singolarmente, ne sanno molto più di me su Fellini».
Sul regista, negli anni, lei ha scritto moltissimo, ma mai un libro compiuto: perché adesso?
«Perché non c’era, a mio modo di vedere, un testo abbastanza puntuale e dettagliato sui rapporti fra Rimini e Fellini. Volevo fare un’analisi organica delle immagini e dei suoni».
Così, Gori va a prendere alcuni suoi saggi pubblicati in varie occasioni, ne scrive altri, chiede una postfazione a Piero Meldini (che da par suo, quale studioso raffinato nonché testimone oculare, tira le somme della lunga storia denominata Rimini vs Fellini), e mette insieme un lungo periodo di ricerche e studi, traendone un libro compatto e succoso che mette molte virgole al loro posto. Un saggio teorico, documentato e ben articolato, in grado di colmare più d’una lacuna. Il libro, anche se più rivolto a un pubblico specialistico, trae beneficio dalla vivace ars oratoria dell’ex sindaco di San Mauro, che ne narra in maniera appassionata e partecipe.
«Ho cercato anche di usare un linguaggio giornalistico, divulgativo, di non essere troppo pedante».
E ci è riuscito.
«È anche un mio modo di fare i conti con Fellini, di cui iniziai a occuparmi ufficialmente nel 1976 con un articolo sul Casanova».
Dunque Rimini, la provincia, la nostalgia dell’infanzia...
«Fellini nei suoi film ci racconta l’amore per le radici, per la piccola patria, ma allo stesso tempo in lui vi è anche una ripulsa... Parte dalla provincia, e vi fa ritorno solo con i film, pensiamo ai Vitelloni...».
E naturalmente ad Amarcord. Scrive Alberto Crespi nel recente Storia d’Italia in 15 film che è un film «nostalgico senza paura di esserlo».
«Amarcord è a modo suo un film nostalgico, ma Fellini sa bene che la nostalgia non è un sentimento che possa essere compensato o colmato. L’ha anche scritto: se pure tornassi, non troverei più la Rimini di una volta, tutto è cambiato. Ecco perciò che la nostalgia può essere sublimata solo nei film».
Tutto cambia, tranne la lingua.
«Sì, l’unico elemento che rimane fermo è il dialetto. Ne La mia Rimini Fellini scrive: “Nell’aria c’erano le voci dei camerieri che parlavano il mio dialetto. Era sempre il mio paese”. Ecco, il dialetto è l’elemento che gli rimane della sua infanzia».
La sua “madeleine”.
«Possiamo dire così. Il dialetto è sempre molto presente nei suoi film».
Ma non necessariamente romagnolo: a volte è bolognese, a volte romanesco, a volte napoletano... quasi una sorta di lingua pandialettale.
«È vero, Fellini non aveva certo preoccupazioni filologiche, cosa gliene importava? Ad esempio nel Satyricon inventa veramente un suo mondo linguistico, così come in 8½ c’è una scena in cui la nonna parla un dialetto incomprensibile, pare quasi un lacerto esoterico. Però il romagnolo prevale».
Perché dunque non tornò mai a Rimini se non per brevi visite?
«A parte alcuni episodi spiacevoli ben noti, o il fatto che non amasse le celebrazioni, la questione è complicata. Fellini era un ballista, un bugiardo per sua stessa ammissione, che si era costruito una mitologia dell’infanzia... Nei suoi film emerge, da un lato, un insopprimibile desiderio di ritornare, ma dall’altro la necessità di esorcizzare i fantasmi del passato proprio con il cinema. C’è un elemento contraddittorio fortissimo nella sua dimensione di artista e di uomo. Ma se cerchi la verità di un artista, la troverai nella sua opera».

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