Ecco l’antidoto contro il divismo delle lettere

FORLÌ. Non un libro di denuncia contro la guerra, ma il racconto di «uomini che oltre all’istinto di sopravvivenza interpretano l’impegno della sopravvivenza».
Federico Guglielmi, Wu Ming 4, parla di L’invisibile ovunque, libro collettivo sulla Grande guerra di Wu Ming (Einaudi, 2015), presentato sabato 9 aprile al ridotto del teatro Diego Fabbri di Forlì per la rassegna Palinsesti del Centro Diego Fabbri.


«In realtà la presentazione viene sempre preceduta da un lungo lavoro: erano già usciti sul nostro sito dei post per preparare il pubblico e farlo in qualche modo “sintonizzare” sulla nuova produzione. La stessa cosa continueremo a farla poi, allegando le interviste, le recensioni più interessanti per dialogare e fare dialogare lettori e libro, cosa che spesso non succede nella nostra editoria».


Anche in questo, oltre che nella firma collettiva, tendete quindi a innovare la fruizione del libro.


«Siamo per una discussione aperta di quello che facciamo, anche se la gestione del sito viene sempre regolata per evitare l’entropia: ci interessa infatti che le discussioni siano costruttive e lascino il segno, che vengano archiviate per poterle poi citare, se necessario, persino se si litiga: purché tutto avvenga a un livello di discussione alto».


La democrazia della rete?


«Non proprio, perché la sinergia è in realtà fra l’oggetto-libro, la tecnologia telematica e il faccia a faccia con i lettori che concretamente incontriamo. Non andiamo in televisione né ci facciamo fotografare, quindi aleggia l’equivoco secondo cui siamo “misteriosi”, ma in realtà facciamo centinaia di incontri… non ci interessa semmai portare il libro in tivù perché vediamo che si finisce per parlare più dell’autore che del libro, assecondando le tendenze un po’ narcisistiche degli scrittori».


Quindi, solo presentazioni vis-à-vis?


«No, andiamo in radio, per esempio, perché ci sembra più adatta ai nostri libri. Ma per sedimentare occorre un lavoro minuto e certosino, in cui è compreso incontrare i lettori in un rapporto alla pari: così riusciamo a far vivere i nostri libri anche anni dopo la pubblicazione, con un’attività che continuiamo nel tempo e che non si riduce al momento del lancio. Che peraltro non facciamo, quanto meno non nei termini di molti altri».


Questo può essere anche un modo per salvaguardarsi dal divismo di molti scrittori di successo, i cui libri vengono, quasi in automatico, proposti dalla televisione.


«Queste forme di divismo peraltro sono una specie di malattia professionale dello scrittore: chi scrive libri porta con sé l’aura dell’intellettuale, che riflette sulle cose e padroneggia le lettere, quasi suscitando un timore reverenziale negli altri. In secondo luogo, vedi il tuo libro, la storia che tu hai inventato e messo sulla carta, oggetto di attenzione: ed è molto facile che il tuo amor proprio aumenti e tu ti gasi un po’. Invece un antidoto che ti permette di fare il tuo mestiere in maniera utile è proprio praticare modi e argomenti che ti mettono sempre in gioco, e al livello dei lettori… altrimenti davvero puoi rischiare di diventare lo scrittore-personaggio, come poi accade in tutti i campi, penso al mondo del rock o al cinema, in cui la fruizione da parte del pubblico è esasperata».


Wu Ming, un gruppo di giovani, amati dai giovani ma che spesso rivolgono nei loro libri l’attenzione alla storia, come succede anche in quest’ultimo lavoro.


«È ovvio che raccontare il passato significa raccontare il presente: è un effetto di prospettiva che ci fa sembrare lontano il passato, ma in realtà, è tutto qui, e ora. Poi, se racconti del presente, dai molte cose per scontate perché tu e il lettore vi trovate nello stesso spazio e tempo. Invece proiettarsi in una dimensione storica chiede di affrescare uno scenario, di trasportare te stesso e chi ti legge in un altrove, e questo è un valore aggiunto».


Perché?


«Perché costringe a uno sforzo di immaginazione e proprio questo sforzo porta a condividere, a intendersi: in una parole, porta a “collaborare” con il lettore, un risultato che non è fatto di ammiccamenti o piacionerie, ma comporta anzi lo sforzo di costruire insieme quel mondo».


L’invisibile ovunque è anch’esso un romanzo storico.


«Si tratta più che di un vero e proprio romanzo, di quattro movimenti, quattro racconti che hanno lo stesso scenario, la Prima guerra mondiale, vista prevalentemente sul fronte italiano anche se ci sono due puntate su quello francese. Anche il tema è il medesimo, l’evasione, il tentativo individuale di evadere dalla guerra: non disertando, ma usando il proprio ingegno per trovare delle vie di fuga, per uscire dal conflitto come istituzione totale e totalitaria. La Prima guerra mondiale è la prima del suo genere, così lunga, quotidiana, fordista: e la strategia di evasione deve adeguarsi a quello scenario».


Sono storie a lieto fine?


«Non sempre, infatti non necessariamente un tentativo deve riuscire, inoltre i protagonisti sono molto diversi fra loro, con diverse storie e diversi atteggiamenti fino a quel denominatore comune, che li rende fratelli. Ma attraverso loro torna in scena il presente».


Come?


«Il riferimento a un intervento bellico dell’Italia che poi torna sui suoi passi è molto caldo e non passa certo di moda. Anzi, come hanno rivelato le celebrazioni di questo centenario, molto meno critiche che in passato, si stanno creando dei nuovi miti fondativi che ci vedono tutti uniti e vittoriosi. Proprio la differenza rispetto a come questo tema è stato trattato nelle ultime rievocazioni potrebbe dircela lunga su dove stiamo andando».


Voi, invece, da bravi “eversori” avete scelto di vedere come sfuggire a un conflitto che molti storici considerano la nostra quarta guerra d’indipendenza…


«La sfida era proprio quella di scrivere qualcosa di diverso dal coro: non una denuncia, che in fondo non ci interessava, ma mettere a fuoco la possibilità, e la fatica, che comporta la permanenza dell’umano nella totale disumanizzazione di un conflitto».

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