«Questo spettacolo è un gesto politico»

Rimini

CESENA. Nella storia in prosa del teatro Bonci di Cesena, Gabriele Lavia occupa un ruolo di primo piano, specialmente a cavallo fra il vecchio Bonci (pre restauro, ultima stagione 1992/93) e nuovo (post restauro dal gennaio 1996). Saranno una ventina i titoli da lui rappresentati a Cesena, per regia e interpretazione (l’ultimo nel 2011 “Il malato immaginario”). Sono un pezzo della storia di un uomo che ha scelto il palcoscenico come principale abitazione.

Gabriele Lavia torna a debuttare a Cesena stasera alle 21 con “I pilastri della società” del norvegese Henrik Ibsen (1828- 1906); si replica fino a domenica (ore 15.30) nell’unica tappa romagnola. È una prima stagionale rimessa in scena dopo Roma al Bonci. L’allestimento rimanda a tempi in cui il teatro aveva un ruolo di rilievo nella società e per il pubblico. Lo dimostra la scenografia imponente e la presenza di 17 attori. La coproduzione a tre coinvolge il Teatro di Roma che Lavia ha diretto fino a un paio di mesi fa, lo Stabile di Torino e la Pergola di Firenze, probabile sua prossima destinazione.

Scritto nel 1877, “I pilastri” racconta della società degli uomini, dando risalto a concetti di libertà e verità. Lo fa attraverso la figura del console Bernick, stimato e potente, che ha però ingannato la società che gli ha dato fiducia. Perché anni prima ha sedotto e abbandonato una ragazza, morta di crepacuore, facendo ricadere la colpa sul fratello di sua moglie Betty, Johan Tonnesen. La vicenda torna a galla quando Johan fa ritorno nel paese con la sorellastra Lona, costringendo il console a confessare la verità.

Lavia nei giorni cesenati ha un ritmo frenetico di lavoro.

«Riprendiamo da qui con pochi giorni per provare, problemi vari, scenografia arrivata a pezzi, luci da rivedere, tante cose…».

È una scommessa e sembra una provocazione portare in scena così tanti attori.

«Volevo fare un testo politico molto forte, volevo che fosse anche un gesto politico avere una compagnia numerosa per attori e tecnici, volevo insomma restituire al teatro quello fatto sul palcoscenico, la centralità».

Una risposta a tanta rappresentazione teatrale di questo tempo.

«Ormai si pensa che il teatro siano solo gli uffici. Poi in palcoscenico basta un attore, una chitarra e… facciamo il reading. Non è così. Credo che il teatro si faccia in palcoscenico ed è meglio che ci siano tanti attori e qualche impiegato di meno. Questo lo penso per il teatro di prosa, lo penso anche per il teatro lirico. Spendiamo un po’ più di soldi per il palcoscenico e un po’ meno per gli uffici».

Lo ha messo in pratica nella direzione del Teatro di Roma?

«Da un mese e mezzo non sono più direttore, ma solo uno scritturato. Ho aperto il teatro a gruppi di innovazione, ho moltiplicato per tre la sala del teatro Argentina, ricavando un palcoscenico in mezzo alla platea, un’altra saletta dal bar del teatro, insomma un lavoro a favore del teatro e del suo pubblico che resterà anche dopo».

“I pilastri della società” non è testo proposto di frequente. Perché lo ha voluto?

«Quando ho dovuto scegliere, mi sono accostato a Ibsen che conosco, direi, abbastanza bene. Però non avevo le idee chiare su cosa avrei voluto fare. Così ho letto e riletto fino a “Le colonne della società”. E a quel punto ho capito che era la cosa che dovevo fare, da una pagina all’altra ne ero più convinto. È stato un lavoro lunghissimo, dall’adattamento alla traduzione, però ho subito percepito che non poteva essere che questo. Era molto difficile ed è stato complicatissimo realizzarlo, soprattutto per l’impegno produttivo».

Cosa le è piaciuto?

«Il fatto che qui, diversamente da precedenti testi, Ibsen non ha bisogno di filtri, non usa personaggi storici per raccontare la sua epoca. Qui mette in scena la sua epoca. Fa arrivare un circo col tendone novità del 1872-73, parla di ferrovia realizzata da pochi anni, insomma mette in scena problemi calati nella sua attualità. Io mi comporto in un modo diverso, l’azione a lui vicina la devo allontanare per fare capire il perché di quella scelta e come quella storia abbastanza lontana sia così contemporanea alla nostra attualità».

Com’è stato calarsi nel suo negativo console Bernick?

«È figlio della società in cui vive. La politica è corrotta perché la società è corrotta. È un personaggio molto complesso, veramente difficile per me, non avevo mai fatto nulla di simile, ho lavorato tanto».

Perché infine definisce questo spettacolo «complicatissimo»?

«La complessità vera sta nel fatto che tutto sembra normalissimo. I personaggi si alzano, bevono, non fanno nulla di strano. Questa però è ciò che io chiamo “l’acrobazia della normalità”».

 

Info: 0547 355959

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