Brizzi, Rimini e Tondelli

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RIMINI. Teo ha trentanove anni, un lavoro sicuro, una macchina aziendale e una ragazza diversa ogni weekend. Sta bene, per il momento la vita gli piace abbastanza. Non come suo fratello Max, più grande di tre anni, che è sempre stato radicale in ogni cosa: nella ribellione ai genitori come nella passione per l’alpinismo che lo ha condotto a imprese estreme, nel costruire una famiglia e fare figli, come è giusto, passati i trenta e anche nel divorziare rovinosamente subito dopo i quaranta...
Sono questi i protagonisti de “Il matrimonio di mio fratello”, l’ultima fatica editoriale di Enrico Brizzi (edita da Mondadori), che nel 1995 divenne famoso con il suo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”. 


Brizzi, che cosa rappresenta per lei questo libro?


«È una storia che ha a che fare con i sentimenti e le dinamiche tipici della mia generazione. È la storia di due fratelli che hanno due modi opposti di vivere la vita: uno si lancia, mentre l’altro segue la partita dalla panchina. Erano vari anni che meditavo su questo progetto. Nel frattempo ho fatto altre cose, ma volevo tornare a scrivere e raccontare di sentimenti, di rapporti di amicizia, familiari e della nostra società, com’è stato con il mio romanzo d’esordio».


Come nella sua prima opera, torna a fare da sfondo la sua città d’origine Bologna. Che ruolo ha?


«Da quattro anni la mia città è diventata Rimini! Bologna è la mia culla, cui sarò sempre affezionato, ma sentivo il bisogno di allontanarmene, perché a volte l’affetto può anche soffocare. Sono contento di essere entrato a meno di 40 anni nel museo della mia città ed è molto bello essere apprezzato dai suoi studenti, ma è altrettanto confortevole sperimentare una sorta di anonimato e avere lunghe ore per scrivere. Rimini mi permette di girare a piedi e in bicicletta, una cosa che amo molto. Poi d’inverno è tranquilla (ma non spenta) e d’estate si trasforma in un palcoscenico a cielo aperto in cui i personaggi sono totalmente trasparenti nei loro desideri che basta osservarli passare seduti al tavolo di un bar. La collego a piacevoli ricordi d’infanzia, inoltre è l’unica città che ha dato il nome a un romanzo di Pier Vittorio Tondelli».


Tondelli è sempre stato un suo modello?


«Sì, per due motivi. Il primo è che essendo corregionali capisco certe sue fascinazioni e amo la sua capacità di passare dalla cultura alta al rock&roll. Il secondo sta nell’insegnamento che c’è nel leggere i suoi libri e nel capire che ognuno ha un’ispirazione diversa. Non è mai stato inquadrato in un solo genere, come solitamente gli editori consigliano, ma ha scritto di sentimenti, di vita giovanile, di quella da caserma come dei punk di provincia, ecc. e credo sia una grande fortuna saperlo fare».


La musica ha sempre avuto un ruolo importante nella sua vita. Immagina una colonna sonora mentre scrive le sue pagine?


«Sì, a due livelli. Penso alla musica in caso di una trasposizione scenica o cinematografica. In secondo luogo sto sempre attento alla musicalità della parola. La scrittura non si basa solo sulla scelta della forma migliore, ma tra tutte le modalità bisogna anche cercare quella che suona meglio quando la si legge ad alta voce. È una tecnica importante se vuoi far star bene le persone che ti leggono e l’ho imparata durante il mio lavoro di apprendistato, quando ero ancora liceale, oltre che da Tondelli stesso».

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