Con Guido, trent'anni di "lotta culturale"

Rimini

 

A volte la penna, la tastiera s’inceppano. La mente è annebbiata; la vista appannata da grosse, intrattenibili, lacrime; le dita gelide; le membra tremanti; il dolore perfora lo stomaco: «E ora cosa faccio, caro amico mio? Dove vado?».

Metto musica, quell’entità impalpabile eppure l’unica in grado di dire l’inesprimibile: provo ad andare avanti, non ci resta altro: è la nostra condanna, è la nostra bellezza, il tuo lascito: avanti! Quella musica che permeava ogni tuo poro, ogni tuo respiro.

Non ce la faccio: silenzio. Riprovo, tremante.

Ci eravamo lasciati tre sere prima, a casa tua, nel tuo nido di libri, dischi e affetto: Silvia alla piadina, Rolando vostro figlio, di ritorno da una “suonata” per l’open day della scuola a indirizzo musicale. Avevamo scartabellato tra le centinaia di lettere autografe di importanti scrittori, poeti e musicisti arrivateci da tutto il mondo nel corso dei primi anni di Letteratutti e del Faenza Folk Festival (poi Tratti’n Festival) alla fine degli anni Ottanta ai primi dei Novanta, per scegliere dei pezzi per la mostra dei trent’anni di attività della Rivista Tratti a corollario di tutta una serie di eventi già delineati per i prossimi mesi, per un anno che doveva diventare memorabile.

Nei tuoi occhi già si presagivano l’intima gioia, il piacere della grande festa che ti apprestavi a vivere più che a organizzare, al di là dell’estenuante, consueta fatica – compagna di vita – che per l’ennesima volta ti sarebbe costata nel reperire, sì mendicare i fondi necessari: per te la vita era una festa del bello e del buono, da condividere col maggior numero di persone. Non era nel tuo stile gridarlo, ma bastava guardarti le labbra, gli occhi: ogni volta che la tua grande, insopprimibile e contagiosa curiosità ti faceva scovare il bello – un manoscritto inviato alla casa editrice da trasformare in libro; un libro importante ma pressoché invendibile da tradursi; un evento organizzato che aveva lasciato traccia nel cuore dei presenti; un concerto in cui tutto il Faxtet, la tua band, aveva dato il massimo in simbiosi col pubblico; un’idea musicale da fermare con l’aiuto di Alessandro Valentini, Fabrizio Tarroni, Andrea Bacchilega e da ultimo anche di Milko Merloni in uno spartito e poi su un cd e quant’altro ancora – ecco esplodere la Festa. Sì, la Festa. Quanto ti piaceva festeggiare con amici e sconosciuti: la festa per un grammo di bello!

E il tuo cruccio per tutti coloro che non volevano e non vogliono capire (enti pubblici o privati, politici dirigenti funzionari, avari slacciatori dei cordoni della borsa): che è questo amore per il bello e la sua condivisione ad aiutare a far crescere una comunità. Non era vuota retorica, ma la realtà che vivevi professionalmente sulla tua pelle, rinunciando a sicurezze economiche d’altro tipo. Un amore per il bello non improvvisato. Ricordi? Lo teorizzammo pure, il “mestiere di scrivere”, suonare e organizzare con un progetto, lo studio, la fatica, le prove e ancora prove, bozze e ancora bozze. D’improvvisazione amavi solo quella jazz, con regole ben precise, che è tutt’altro che frettoloso, dilettantesco, estemporaneo estro pseudogeniale. E questa tua “testardaggine” professionale nel far bene le cose, nel dare il meglio di sé con gioia ed entusiasmo per quanto piccoli, limitati e insignificanti si possa essere, spesso veniva travisata dagli interlocutori istituzionali per supponenza, vedendo tra i fili della tua barba e gli occhi vigili all’apparenza burberi dell’ostracismo, quando invece si trattava soltanto della dolcezza dello scetticismo dovuto a trent’anni di “lotta culturale” in libertà senza accodarsi a nessun carro, perché credevi fermamente che la libertà della cultura dovesse pervadere la vita civile tout court al di là degli steccati del politicame.

Anche a me talvolta capitava di travisare un tuo sguardo leggendo severità sul tuo volto, quando invece si trattava di amorevole correzione di errori dovuti ai miei limiti. In questi casi e quando, com’è naturale che sia, avevamo opinioni divergenti ci apostrofavamo ironicamente col cognome: Signor Leotta, Signor Nadiani. Come chiamarti, ora, amico? La voce afona risuona inane nel vuoto.

Ricordi? Sognavamo in grande, già trent’anni fa quando iniziammo a Faenza l’avventura della letteratura (spesso in abbinamento con altre arti, musica, teatro, grafica, fotografia ecc.) con reading a lume di candela per finire a ciambella e sangiovese. Quando con l’aiuto di un tipografo e il sostegno pratico di alcuni amici scrittori, poeti e traduttori, Elio Pezzi, Andrea Fabbri, Cesare Ricciotti, e poi Mario Giosa, Massimo Montevecchi, Daniele Serafini e altri ancora stampammo quasi clandestinamente il primo numero della rivista letteraria (all’epoca appena 16 pagine) Tratti, nel frattempo una delle poche rimaste ancora in circolazione in tutt’Italia.

Ci eravamo conosciuti negli anni Settanta sui campi di atletica, tu lanciatore di peso, io fondista: entrambi brocchi. Poi ci eravamo persi di vista, io all’estero a studiare e tu in banca a far di conto – non avresti resistito molto – e di notte a soffiare in un flauto, un sassofono, a pigiare i tasti sulla macchina da scrivere. Un giorno ci rivedemmo in via Naviglio e ci scambiammo i libri che avevamo appena pubblicato constatando che di letteratura da toccarsi con mano, da vivere, da ascoltare in diretta, nella nostra ridente cittadina, ma anche altrove, proprio non ce n’era. «Perché non facciamo qualcosa?».

Un incontro che ci avrebbe segnati. Per sempre.

Già allora, con tutto il nostro entusiasmo e la nostra irrazionale passione sognavamo una Casa della Letteratura in cui far convergere tutte le iniziative attorno a quest’arte sempre più bistrattata e far incontrare la provincia col mondo e viceversa. E in trent’anni, dopo centinaia e centinaia di libri e cd pubblicati, le recensioni nei maggiori organi di stampa, i vari passaggi alla Rai (radio e tv), dopo il Premio della traduzione del ministero della Cultura (1998), il riconoscimento dell’Unesco e gli inviti, i premi e la stima di tanti enti culturali internazionali, ebbene sì – che tristezza! E che amarezza ti ha lasciato! – in trent’anni il Comune di Faenza nel suo provincialismo non è stato in grado di trovarti neppure un sottoscala come sede per la Cooperativa non a scopo di lucro Tratti-Mobydick da te guidata, nonostante le reiterate promesse di sindaci e assessori. Ma anche di questo sapevi sorridere, perché una delle qualità che solo pochi – in particolare i lettori di quei tuoi primi grandi libri di racconti Sachsaphone (1981), Lasciarsi andare (1982), Dorando (1983), troppo in anticipo su trend letterari che sarebbero esplosi quindici anni dopo – conoscevano di te, era l’ironia, una volta passata l’incazzatura. Ridere delle bassezze, delle piccinerie, guardare avanti e ripartire con curiosità alla ricerca, ancora una volta, del terreno su cui costruire il prossimo progetto; ma essere anche grati di trovare, ogni tanto, un orecchio in ascolto in grado di capire la musica di tutto il tuo agire affinché potesse essere condivisa con tanti.

A cena finita, prima di uscire da casa tua nel bellissimo centro di Faenza, la città che hai amato e a cui hai dato tutto te stesso e da cui si irradiava la tua attività alla Romagna intera e al mondo, quella sera mi lasciasti le bozze del mio prossimo libro: l’ennesima traduzione, un altro di quei lavori in cui tu credevi con tutto il tuo essere per cercare di capire l’Altro, per fare incontrare le diversità. Bozze. Ancora bozze. Proofs. Prove. Ancora prove. Amico, chi mi farà l’editing definitivo?

CIÒ NONOSTANTE

provare a creare in prima persona / magari soltanto il venti, il trenta / o forse anche meno / l’uno, il due, fosse pure lo zero virgola cinque per cento / di quanto è in possesso il genio assoluto / ma comunque provarci / tentare di estrarre da noi quanto / in dono e in sorte ci è dato / al pari / dei gesti gentili immediati per strada, o d’affetto, d’amore / dati, mostrati con un sorriso franco / così di passata innocenti senza pensare / a questo, quell’altro / al tornaconto ora oggi domani / per non dire d’avere vissuto soltanto / di luce riflessa che è come / non esserci stati affatto / pur già sapendo che è mera finzione / inganno di sé per sopportare / la nostra condanna / null’altro che questo / se non dimostrare / che il senso del tutto / sta nell’opporsi al negare / di stare o di essere stati / di dare o d’aver dato / un grammo di sé a chi c’ha incontrato / …

*traduttore, docente e germanista

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui