Questa ragazzacon il turbante è una vera diva

Rimini

BOLOGNA. La ragazza è una vera diva. Fa parlare di sé prima ancora del suo arrivo. Mobilita folle di curiosi (100 mila solo le prenotazioni, qualcuna persino dalla sua Olanda). E, come si conviene a una vera star, si fa trovare un po’ appartata, quasi al buio, in una stanza tutta per sé. Riservata e fascinosa, un volto senza identità, eppure tutti la conoscono: per la morbida bellezza di Scarlett Johansson che le ha dato vita al cinema, o per quel turbante color lapislazzulo con cui veniva identificata prima di sbarcare in libreria e poi sul grande schermo.

 

Da quel giorno, però, tutto è cambiato, persino il suo nome. Il suo arrivo per la prima volta in Italia (non ama viaggiare, preferisce rimanersene nella sua casa all’Aja) scatena folle di giornalisti, che ieri a Bologna l’hanno finalmente conosciuta vis-à-vis.

È La ragazza con l’orecchino di perla (1665 circa), uno dei quadri più famosi al mondo, piccolo capolavoro di Johannes Vermeer (cm 44,5 x 39) che, insieme ad altre 36 opere, sarà visibile dall’8 febbraio, nelle suggestive sale di Palazzo Fava affrescate dai Carracci, per la mostra “Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt. Capolavori dal Mauritshuis”.

Segafredo Zanetti e Intesa Sanpaolo sono gli sponsor. La cifra spesa per portare a Bologna la mostra e per assicurarla è top secret per contratto: la Fondazione Carisbo con Genus Bononiae ci ha messo «meno di un milione» dice il presidente Fabio Roversi Monaco. Il quale coglie anche l’occasione per rispondere alle critiche mossegli in questi mesi: questa mostra non lascerà niente a Bologna secondo l’assessore comunale Alberto Ronchi. La replica: «Che cosa restava della sagra della porchetta?». L’intento è «dare un contributo alla crescita della società a partire dai più giovani».

E sul tema dei giovani e della divulgazione pare proprio che il curatore Marco Goldin e l’ex magnifico rettore se la intendano bene: del resto il trevigiano è abituato a sentirsi dare del «popolare», come se fosse un’offesa. E ha fatto il callo anche ai critici d’arte che lo snobbano perché alle sue mostre, da Treviso a Verona, da Rimini a Genova, da Brescia a Vicenza, si formano sempre lunghe code. Molti non gli perdonano di organizzare tutto da sé, al di fuori dei soliti giri, delle baronìe universitarie e dei circuiti delle soprintendenze: lui, manager e studioso, è il miglior promoter del suo lavoro, una vera anomalìa in Italia.

Sei le sezioni, allestite in una atmosfera magica, quasi teatrale, in cui il bianco che punteggia le tele sembra emergere dal fondo, magistralmente illuminato. Del resto si sa che Goldin – che è riuscito a portare a Bologna la ragazza dopo molte trattative e solo grazie ai rapporti intessuti negli anni con gli olandesi – è un perfezionista. L’altra notte, raccontano dal suo entourage, ha controllato e puntato di persona faretto per faretto. E il percorso non è lo stesso che hanno visto in questi due anni di tournée i visitatori di Tokyo o di New York: nella prima sala c’è una doverosa storia del Mauritshuis vista attraverso i quadri (per un museo in ristrutturazione, una mostra del genere è anche una grande operazione di marketing). Nella seconda sala la pittura di paesaggio che vette eccelse toccò nel Seicento in Olanda (e se i nomi possono dire poco ai meno avvezzi, le opere non lasciano dubbi sulla qualità e varietà). Poi ci sono i ritratti, con ben tre opere di Rembrandt tra cui l’uomo anziano del 1677, «di un realismo quasi sciatto, ottocentesco», come spiega l’organizzatore. Nella quarta troviamo gli interni con figure, tra cui spiccano due tra le tele più belle dell’intera mostra, il “Canto di lode di Simeone”, ancora di Rembrandt, e “Diana e le sue ninfe” di Vermeer. Quindi arrivano le nature morte e infine, nell’ultima sala, eccola, tutta sola al centro della stanza da dove, nella penombra, sembra chiamare il visitatore a sé. C’è tempo per vederla fino al 25 maggio, poi dovrà tornare a casa.

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