Gente di Forlì: se Joyce vive a Ebla

Rimini

FORLÌ. Dal 28 gennaio al 1° febbraio la compagnia Città di Ebla sarà al Mime London Festival con lo spettacolo “The dead”, che vede in scena Valentina Bravetti e Luca Di Filippo, diretti da Claudio Angelini. Ed è proprio insieme al regista del gruppo forlivese che allarghiamo lo sguardo su questo lavoro.

“The dead”, debutto inglese per Città di Ebla, è l’adattamento del racconto di James Joyce presente in “Gente di Dublino”. Che cosa vi ha spinto a confrontarvi con questa storia?

«Venivamo da una precedente esperienza fatta su un pilastro della letteratura mondiale: “La metamorfosi” di Kafka. Per la prima volta ci capitava di confrontarci con la trasposizione di un racconto e questa cosa nasceva da una commissione. Il percorso è stato talmente denso di scoperte che abbiamo deciso di mantenerci nel perimetro tracciato dalla letteratura del primo Novecento europeo e di scegliere nuovamente un grande autore che avesse usato il racconto come forma espressiva. Potremmo dire che ci ha trovato “The dead”».

Lo spettacolo mette a confronto documentazione e performance dal vivo, con immagini proiettate in tempo reale da un fotografo. Qual è il rapporto tra corpo e immagine in “The dead”? Qual è l’urgenza drammaturgica di questo meccanismo?

«Una fotografia è un residuo di passato. Quindi di fatto è un fantasma, e lo diventa istantaneamente dopo averla scattata. Eppure ci mostra un segmento di realtà, prende vita attraverso il nostro sguardo, ci è “contigua”. In “The dead” i vivi e i morti si confondono quasi a creare una sovrapposizione fra due mondi. Possiamo pensare alla fotografia come a una porta verso un mondo apparentemente lontano ma in realtà a noi prossimo? Scattare in diretta un’immagine che rimane congelata in proscenio mentre l’azione su palco prosegue. Mettere in evidenza in maniera fulminea questo rapporto con il presente e il “già” passato. Joyce racconta questo e il nostro dispositivo in qualche modo è ispirato alla sua spina dorsale narrativa. L’urgenza è legata, in questo caso, a un rapporto con la nostalgia. Direi la nostalgia del presente».

Nei lavori precedenti vi siete confrontati con testi canonici, quali appunto “La metamorfosi” o l’Otello di Shakespeare. Alcuni vostri spettacoli iniziano con una premessa d’impossibilità di adattamento, lavorando sul potenziale performativo del corpo, il linguaggio visivo e la scenografia per creare significati direttamente in scena. Qual è il vostro approccio alla creazione e da cosa è influenzato?

«Prima di Kafka venivamo da un progetto di tre anni denominato “Pharmakos” che partiva da testi medici e di filosofia. L’approccio alla creazione, per quanto mi riguarda, è un processo discontinuo, casuale e si nutre delle suggestioni più disparate. Una fotografia può valere quanto un suono o un manuale di meccanica. Il fatto di non avere più rappresentato testi scritti per la scena è casuale e non vuole essere una dichiarazione stilistica senza ritorno. In questi ultimi anni siamo stati spinti da commissioni e coproduzioni che hanno battuto il tempo del lavoro, ma operiamo comunque fuori da circuiti convenzionali del teatro e dunque anche il pensiero di un nuovo lavoro spesso prende tempi molto lunghi, in altri casi brevissimi. Non c’è una regola fissa. Proprio perché le logiche di circuitazione toccano in maniera molto tangenziale il nostro lavoro, diviene fondamentale sentire quale urgenza lo muove. Altrimenti meglio tacere».

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